Ripensare la didattica inclusiva attraverso la collaborazione
Nel contesto educativo contemporaneo, la collaborazione tra insegnanti e la condivisione di strumenti didattici rappresentano una condizione indispensabile per garantire pari opportunità di apprendimento. Le esperienze scolastiche mostrano come la produzione e la diffusione di mappe concettuali, schemi e riassunti non siano semplici strumenti compensativi per studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), ma vere e proprie strategie di inclusione capaci di favorire il successo formativo di un’intera classe.
Nonostante ciò, permangono resistenze culturali: alcuni docenti considerano la condivisione di materiali personalizzati un’ingerenza nel proprio ambito disciplinare o un “vantaggio eccessivo” per chi usufruisce di tali strumenti. In realtà, come sottolineano le Linee Guida per l’inclusione scolastica (MIUR, 2022), la differenziazione didattica e la cooperazione fra docenti non solo non minano l’autonomia professionale, ma la rafforzano, ponendo al centro l’obiettivo comune di favorire l’apprendimento di tutti e di ciascuno.
Le mappe concettuali come strumento di equità
Le mappe concettuali, specie se elaborate insieme allo studente, non sono “scorciatoie”, ma mediatori cognitivi che aiutano a costruire significati, organizzare concetti e sviluppare autonomia. La loro diffusione tra compagni, lungi dal ridurre l’impegno individuale, può generare processi cooperativi e peer tutoring: chi studia con mappe condivise consolida le proprie conoscenze, mentre chi le riceve acquisisce un modello di sintesi e rielaborazione efficace.
L’obiezione di chi teme un livellamento verso il basso ignora che l’inclusione non implica abbassare l’asticella, bensì fornire strumenti diversi per raggiungere obiettivi comuni. La ricerca pedagogica, da Novak a Caviglia, conferma che le rappresentazioni grafiche del sapere potenziano la memoria semantica e la capacità di collegare concetti, favorendo la comprensione anche negli studenti più fragili o con deficit attentivi.
Il docente di sostegno come facilitatore di apprendimento condiviso
Il docente di sostegno non opera in parallelo alla classe, ma al suo interno, in una prospettiva di co-docenza e corresponsabilità educativa. La normativa italiana, dalla Legge 517/1977 fino al D.Lgs. 66/2017, riconosce il principio della contitolarità: tutti i docenti della classe, curriculari e di sostegno, concorrono con pari dignità alla realizzazione del progetto formativo. Impedire al docente di sostegno di condividere materiali o strumenti didattici con l’intero gruppo classe significa, di fatto, limitare l’efficacia dell’inclusione e negare la funzione di mediazione culturale che la sua figura riveste.
In molte realtà scolastiche, la produzione di materiali accessibili – appunti semplificati, mappe o riassunti digitali – si rivela una risorsa collettiva. La diffusione di tali strumenti, anche tramite piattaforme digitali come Google Classroom o ambienti cooperativi, contribuisce ad aumentare la motivazione e la partecipazione degli studenti, in particolare in contesti a bassa scolarizzazione o con difficoltà di concentrazione.
Dal sospetto alla collaborazione: una questione di cultura professionale
La diffidenza nei confronti della condivisione nasce spesso da una visione individualistica della docenza, in cui l’insegnante custodisce gelosamente il proprio metodo come marchio personale. Tuttavia, la scuola inclusiva richiede un cambio di paradigma: dalla trasmissione unidirezionale al costruire insieme. Accogliere la diversità significa riconoscere che ogni studente può imparare in modo diverso e che il materiale didattico può diventare un bene comune. Quando un compagno apprende grazie a una mappa concettuale, non “copia”: utilizza un supporto che gli permette di accedere alla conoscenza secondo le proprie modalità.
In questa prospettiva, la cooperazione tra docenti curriculari e di sostegno assume un valore pedagogico e culturale. Condividere strumenti non è un atto di concessione, ma di responsabilità collegiale verso la crescita di tutti gli alunni. La qualità della scuola inclusiva si misura, in definitiva, non sulla quantità di regole rispettate, ma sulla capacità di creare ambienti di apprendimento flessibili, aperti e solidali.
Educare nella complessità: strategie inclusive per la sordocecità e le disabilità sensoriali
Una disabilità rara ma non invisibile
La sordocecità rappresenta una delle forme di disabilità più complesse da affrontare nel contesto educativo. Si tratta della compresenza di deficit visivi e uditivi, che non si sommano semplicemente, ma generano una condizione unica, con bisogni educativi, comunicativi e relazionali profondamente specifici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la sordocecità una “pluridisabilità sensoriale” e stima che i casi diagnosticati siano ancora sottostimati, soprattutto a causa della difficoltà di rilevazione precoce nei sistemi scolastici e sanitari.
La perdita parziale o totale di vista e udito, congenita o acquisita, influisce su tutte le dimensioni dello sviluppo: cognitiva, linguistica, emotiva e sociale. Per questo l’approccio educativo deve essere globale, personalizzato e centrato sulla costruzione di canali alternativi di comunicazione. Ogni percorso didattico rivolto a un alunno sordocieco deve nascere dall’ascolto attento della persona e dal riconoscimento delle sue abilità residue, che possono diventare il punto di partenza per la costruzione dell’autonomia.
Dal tatto alla parola: il linguaggio come ponte sensoriale
Quando i canali visivi e uditivi vengono meno, il tatto diventa il principale mezzo di contatto con il mondo. La comunicazione tattile non è un semplice surrogato dei linguaggi tradizionali, ma una vera e propria forma di pensiero incarnato. Uno dei metodi più noti è il Tadoma, tecnica sviluppata nel Novecento, in cui la persona sordocieca appoggia le dita sulle labbra e sulla gola dell’interlocutore per percepire vibrazioni e movimenti articolatori. È un modo di “leggere la voce con le mani”, che permette non solo di comprendere, ma in alcuni casi anche di imparare a parlare.
Accanto al Tadoma si collocano la LIS tattile (variante della Lingua Italiana dei Segni adattata al tatto), la dattilologia tattile e i sistemi di oggetti di riferimento, dove a un gesto o a un oggetto concreto viene associato un significato. Ad esempio, porgere una tazza può significare “vuoi bere?”: un gesto che diventa linguaggio. Queste strategie multimodali costruiscono un alfabeto personalizzato, in cui ogni stimolo sensoriale — una vibrazione, una consistenza, un odore — può trasformarsi in segno comunicativo.
Strumenti tecnologici e autonomia personale
La tecnologia rappresenta oggi una risorsa insostituibile per l’inclusione delle persone con disabilità sensoriali. I display Braille digitali, i software vocali, le app educative accessibili e i registratori collegati a tablet o computer consentono un accesso più diretto ai contenuti didattici. La scuola, tuttavia, non sempre accoglie con favore tali strumenti. Alcuni docenti manifestano timori legati alla privacy o alla gestione dei dati vocali, come accade nei casi in cui si nega l’uso di registratori in classe. Eppure la normativa è chiara: secondo il D.Lgs. 66/2017 e le Linee Guida sull’inclusione (MIUR, 2022), l’utilizzo di ausili tecnologici rientra pienamente nei diritti dell’alunno, a condizione che sia previsto nel Piano Educativo Individualizzato (PEI) e concordato con la famiglia e il consiglio di classe.
Negare un ausilio certificato significa introdurre una barriera all’apprendimento, contraria al principio di equità sancito dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006). Al contrario, l’adozione di strumenti tecnologici adeguati favorisce l’autonomia, la partecipazione e la dignità della persona, promuovendo una didattica realmente accessibile.
La personalizzazione didattica come cardine del PEI
Il PEI è lo strumento centrale per pianificare il percorso educativo dell’alunno con sordocecità. Deve essere redatto in modo dettagliato, ma anche flessibile, poiché le esigenze dello studente possono mutare durante l’anno. La fase di osservazione iniziale, solitamente breve, deve essere seguita da un continuo monitoraggio per adattare obiettivi, strategie e strumenti.
La personalizzazione non significa solo semplificare i contenuti, ma rimodulare le modalità di accesso al sapere. Le esperienze dirette, la manipolazione, le attività tattili e le simulazioni concrete diventano strumenti di apprendimento privilegiati. In questo contesto, la collaborazione tra docenti, famiglia e figure specialistiche (logopedisti, tiflologi, psicomotricisti, assistenti alla comunicazione) è essenziale per garantire una coerenza tra scuola e ambiente domestico, evitando interruzioni che potrebbero compromettere i progressi raggiunti.
Verso una cultura educativa multisensoriale
La sordocecità invita la scuola a riflettere sul concetto stesso di comunicazione e di apprendimento. Quando la parola non basta, il corpo diventa linguaggio; quando lo sguardo non comunica, il contatto tattile diventa relazione. La sfida per i docenti è trasformare la mancanza in possibilità, utilizzando tutti i canali percettivi per costruire significato.
Una didattica inclusiva non riguarda solo chi vive una disabilità sensoriale, ma migliora la qualità dell’apprendimento per tutti. Le metodologie multisensoriali, la collaborazione interdisciplinare e l’uso di tecnologie assistive rendono la scuola più ricca, più flessibile e più umana. In fondo, educare nella complessità significa riconoscere che ogni comunicazione è un atto di incontro, e che l’inclusione non è un obiettivo speciale, ma la misura più autentica del progresso educativo di una comunità.
Il docente di sostegno come perno dell’inclusione: tra corresponsabilità e cultura professionale
Una figura centrale, non ausiliaria
A quasi cinquant’anni dall’introduzione della figura del docente di sostegno con la Legge 517 del 1977, la scuola italiana continua a interrogarsi sul suo reale riconoscimento professionale. Sebbene la normativa sancisca la contitolarità del docente di sostegno all’interno del consiglio di classe, persistono visioni riduttive che lo confinano al ruolo di “assistente personale” dell’alunno con disabilità. In realtà, il docente di sostegno è un mediatore pedagogico e un facilitatore di apprendimento, il cui compito principale è garantire che l’intera comunità scolastica diventi inclusiva. Non si tratta di “seguire un solo studente”, ma di creare condizioni educative favorevoli per tutti.
Il Decreto Legislativo 66/2017 e le successive Linee Guida per l’inclusione (2022) ribadiscono che ogni docente di sostegno è contitolare della classe e partecipa a pieno titolo alla progettazione didattica, alla valutazione e alle riunioni collegiali. Escluderlo da queste dinamiche o ridurre il suo intervento a supporto individuale costituisce una violazione non solo del diritto dell’alunno, ma anche del principio di collegialità sancito dall’ordinamento scolastico.
Collaborazione e corresponsabilità: un cambio di mentalità necessario
Molte difficoltà non derivano da mancanze normative, ma da resistenze culturali. Alcuni docenti curricolari faticano ad accettare la presenza di un collega “aggiunto” in aula, percependolo come intrusivo o giudicante. In realtà, la figura del docente di sostegno nasce per costruire ponti, non per erigere muri. La collaborazione tra docenti, quando è autentica, consente di creare un ambiente di apprendimento flessibile, in cui le differenze non sono problemi da gestire ma risorse da valorizzare.
L’inclusione, per funzionare, deve essere un processo collettivo: nessun insegnante può dirsi “inclusivo” se agisce in isolamento. È attraverso la cooperazione che si garantisce il successo formativo dell’alunno e il benessere dell’intero gruppo classe. Come ricorda il pedagogista Andrea Canevaro, “l’inclusione non è mai un atto solitario, ma una relazione educativa condivisa”. Questa visione richiede un rinnovamento profondo della cultura professionale, in cui la corresponsabilità non sia solo un obbligo formale, ma una pratica quotidiana.
Empatia e professionalità come strumenti di mediazione
Essere docenti di sostegno significa coniugare competenza normativa, sensibilità pedagogica ed equilibrio relazionale. In molti casi, i conflitti nascono non da divergenze di principio, ma da incomprensioni comunicative. Un atteggiamento empatico, assertivo e dialogante permette di sciogliere tensioni e costruire alleanze. Laddove non sia possibile superare il muro di chiusura, il docente di sostegno può “aggirare l’ostacolo”, mantenendo sempre al centro il benessere dell’alunno. La priorità non è convincere il collega, ma garantire che lo studente apprenda e partecipi.
Il sostegno è una professione ad alta intensità emotiva: richiede di gestire contemporaneamente le esigenze didattiche, le dinamiche relazionali e le questioni legali che possono emergere. Tuttavia, è proprio in questa complessità che risiede il suo valore formativo. L’insegnante di sostegno, lavorando tra le differenze, diventa un modello di mediazione e resilienza per l’intera classe.
Formazione continua e cultura dell’inclusione
La formazione dei docenti, sia di sostegno che curriculari, resta una leva cruciale per costruire una scuola realmente inclusiva. La normativa prevede percorsi obbligatori di aggiornamento, ma troppo spesso si riducono a moduli online o attività formali. È invece necessario un approccio esperienziale e riflessivo, che coinvolga anche i docenti di ruolo non specializzati. La formazione sull’aspetto emotivo e relazionale — ascolto, empatia, gestione dei conflitti — dovrebbe essere considerata parte integrante della professionalità docente. Come sottolineano le ricerche dell’European Agency for Special Needs and Inclusive Education, la qualità dell’inclusione non dipende solo dai modelli organizzativi, ma soprattutto dalle competenze interpersonali di chi insegna.
Verso una scuola della corresponsabilità
Il futuro della scuola inclusiva italiana passa per un cambio di paradigma: dal docente “specialista” al docente partecipe e corresponsabile. L’insegnante di sostegno non è un ospite in classe, ma un collega che porta un punto di vista diverso, una lente pedagogica orientata all’equità. Solo quando tutti i docenti, curriculari e di sostegno, riconoscono la comune finalità educativa, la scuola può davvero dirsi inclusiva.
L’inclusione non è un compito aggiuntivo, ma il cuore stesso della missione educativa. È il modo in cui la scuola interpreta il proprio ruolo sociale: quello di non lasciare indietro nessuno, trasformando la diversità in occasione di crescita condivisa.
Empatia, formazione e comunità educativa: verso una scuola realmente inclusiva
Oltre le norme: la dimensione umana dell’inclusione
L’inclusione scolastica non si realizza soltanto attraverso le leggi o gli strumenti didattici, ma attraverso la qualità delle relazioni. La presenza di piani educativi personalizzati, mappe concettuali, ausili tecnologici o strategie differenziate è fondamentale, ma nessuna innovazione può funzionare senza un atteggiamento empatico e cooperativo da parte dei docenti.
Come ricordano i documenti dell’UNESCO e dell’European Agency for Inclusive Education, l’inclusione è “un processo dinamico di partecipazione e appartenenza”. Ciò significa che l’aspetto emotivo e relazionale non è accessorio, ma costitutivo del processo educativo. La competenza empatica — la capacità di comprendere l’altro e di mettersi nei suoi panni senza giudicare — rappresenta oggi una delle competenze professionali più importanti per chi lavora nella scuola. L’empatia non sostituisce la competenza, ma la rende efficace: un docente può conoscere tutte le norme del D.Lgs. 66/2017, ma senza saperle tradurre in un rapporto umano rischia di svuotarle di senso.
Il valore dell’ascolto e del lavoro di squadra
Una scuola inclusiva non si costruisce individualmente. Ogni insegnante, dirigente, collaboratore e famiglia è parte di un ecosistema educativo, in cui la collaborazione è l’elemento vitale. Il docente di sostegno, in particolare, diventa un catalizzatore di comunicazione, un punto d’incontro tra le diverse figure che ruotano attorno allo studente. Ma la corresponsabilità deve coinvolgere tutti: insegnanti curricolari, referenti dell’inclusione, specialisti esterni e genitori.
Laddove si sviluppa una comunità di pratiche condivise, i risultati sono evidenti: maggiore partecipazione, riduzione dell’abbandono scolastico, crescita del senso di appartenenza. È dimostrato che una classe coesa, che lavora su progetti comuni e con linguaggi condivisi, diventa più accogliente anche verso chi presenta fragilità. La scuola, allora, non è solo un luogo di istruzione, ma una palestra di convivenza democratica: qui si apprendono empatia, rispetto e solidarietà, le stesse competenze che i ragazzi porteranno nella società futura.
Formare alla relazione: un’urgenza educativa
Molti docenti sottolineano la necessità di una formazione continua non solo sulle discipline o sugli strumenti digitali, ma anche e soprattutto sulle competenze socio-emotive. La formazione frontale o le ore di aggiornamento obbligatorie non bastano se si riducono a un adempimento burocratico. Occorre promuovere laboratori esperienziali, momenti di confronto e riflessione collettiva su casi reali, che aiutino gli insegnanti a riconoscere i propri limiti comunicativi e a sviluppare strategie di mediazione.
L’educazione all’empatia, alla gestione delle emozioni e all’ascolto attivo dovrebbe essere parte integrante dei percorsi universitari e di aggiornamento. Non si tratta di “aggiungere” un modulo, ma di rimettere la relazione al centro del mestiere docente. Come affermava Carl Rogers, “un clima di accettazione e comprensione empatica favorisce la crescita personale e l’apprendimento autentico”. La scuola che accoglie non è quella che “include per dovere”, ma quella che si apre per scelta.
Dalla cultura dell’adempimento alla cultura dell’accoglienza
Molte delle difficoltà che emergono nel lavoro di rete derivano da un approccio ancora troppo formale all’inclusione: si compila il PEI, si organizzano incontri, ma spesso manca la convinzione interiore che l’inclusione sia un valore fondante e non un obbligo amministrativo. La cultura dell’accoglienza, invece, richiede un cambiamento profondo: valorizzare la diversità, riconoscere i talenti di ciascuno, trasformare la fragilità in opportunità di crescita.
In questa prospettiva, l’inclusione non è più un obiettivo da raggiungere, ma una dimensione permanente del fare scuola. Ogni gesto quotidiano — un saluto, una parola di incoraggiamento, un tempo dedicato all’ascolto — diventa parte di un progetto educativo più ampio, che restituisce alla scuola il suo ruolo di comunità di cura.
Conclusione: la scuola come laboratorio di umanità
Una scuola che accoglie è una scuola che educa alla cittadinanza, alla solidarietà e al rispetto. L’empatia, la collaborazione e la comunicazione interpersonale non sono semplici competenze trasversali, ma condizioni di possibilità per l’apprendimento. Solo quando gli adulti che educano riescono a cooperare tra loro, gli studenti imparano a cooperare tra pari.
L’inclusione, dunque, non è un traguardo, ma un cammino: un percorso che richiede formazione, riflessione, coraggio e capacità di mettersi in discussione. In ultima analisi, costruire una scuola inclusiva significa costruire una società più giusta, consapevole e umana, dove ogni voce — anche la più fragile — può essere ascoltata e valorizzata.
Box pratici riassuntivi
Punti chiave
- L’inclusione non è un insieme di strategie isolate, ma un approccio culturale condiviso che coinvolge tutta la comunità scolastica.
- Le mappe concettuali e gli strumenti compensativi non riducono l’impegno, ma ampliano l’accesso al sapere e favoriscono l’autonomia.
- Il docente di sostegno è contitolare della classe e ha un ruolo di mediazione e coordinamento, non di assistenza individuale.
- L’uso di ausili tecnologici (registratori, display Braille, software vocali) è un diritto dell’alunno e deve essere previsto nel PEI.
- L’empatia e la collaborazione sono competenze professionali decisive per il successo dell’inclusione.
Errori comuni
- Considerare la condivisione di mappe o appunti come un “vantaggio” non equo.
- Ridurre il sostegno a un ruolo secondario o a un aiuto esclusivo per l’alunno certificato.
- Ignorare la normativa che tutela l’utilizzo degli ausili tecnologici e la partecipazione degli studenti ai GLO.
- Limitare la formazione dei docenti alla sola dimensione teorica, trascurando quella relazionale ed emotiva.
Checklist per una didattica inclusiva
- Analizzare i bisogni educativi di ciascun alunno.
- Personalizzare i materiali didattici e favorire la condivisione.
- Inserire nel PEI strumenti, tempi e modalità di comunicazione personalizzate.
- Collaborare costantemente con famiglia e specialisti.
- Promuovere attività cooperative e tutoring tra pari.
- Monitorare l’efficacia delle strategie e aggiornarle nel corso dell’anno.
Suggerimenti operativi
- Predisporre materiali accessibili per l’intera classe, non solo per gli studenti con disabilità.
- Usare linguaggi multimodali (visivo, tattile, uditivo, corporeo) per favorire diversi canali di apprendimento.
- Sfruttare le potenzialità delle piattaforme digitali per condividere risorse in modo sicuro e trasparente.
- Organizzare momenti periodici di confronto tra docenti, famiglie e studenti per valutare insieme i progressi.
- Promuovere progetti di educazione socio-emotiva per rafforzare empatia e competenze relazionali.
Fonti e letture consigliate
- MIUR – Linee Guida per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, aggiornamento 2022.
- D.Lgs. 66/2017, “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità”.
- Canevaro A. (2019), Pedagogia speciale e integrazione, Erickson.
- European Agency for Special Needs and Inclusive Education (2021), Teacher Professional Learning for Inclusion.
- OMS – WHO (2020), World Report on Vision and Hearing.
- Rogers C. (1969), Freedom to Learn, Merrill.
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