Bisogni Educativi Speciali (BES) e Inclusione Scolastica: strumenti, strategie e ruolo del docente inclusivo

Negli ultimi decenni, la scuola italiana ha compiuto un importante percorso verso la personalizzazione dell’insegnamento, riconoscendo che ogni studente possiede modalità e tempi di apprendimento diversi. L’inclusione educativa non è più intesa come un atto di “accoglienza” straordinaria, ma come un diritto fondamentale che trova fondamento nell’articolo 3 della Costituzione e in una serie di normative specifiche – tra cui la Legge 104 del 1992, la Legge 170 del 2010 e le successive Linee guida ministeriali sui Bisogni Educativi Speciali (BES).

Con l’espressione “bisogni educativi speciali” si indica una macro-categoria che comprende tutte le situazioni in cui uno studente, in modo temporaneo o permanente, richiede interventi educativi personalizzati. Si tratta di un concetto ampio, che abbraccia diverse condizioni: disabilità certificate, disturbi evolutivi specifici, difficoltà di apprendimento, svantaggi linguistici, socio-economici o culturali. Alcuni di questi bisogni, come nel caso dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), accompagnano la persona per tutta la vita; altri, invece, possono essere transitori, legati a momenti particolari della crescita o a eventi di natura familiare e sanitaria.

In questa prospettiva, l’inclusione non si limita alla semplice presenza in classe, ma implica una didattica capace di valorizzare le potenzialità di ciascuno. Gli strumenti a disposizione del docente si dividono in due grandi categorie: strumenti compensativi e misure dispensative. I primi hanno la funzione di “compensare” le difficoltà legate al disturbo o alla condizione di partenza, offrendo supporti concreti che permettono allo studente di raggiungere gli obiettivi formativi previsti. Possono comprendere, per esempio, l’uso della calcolatrice, delle mappe concettuali, della tavola pitagorica, di audiolibri o software di sintesi vocale. Si tratta di strumenti che favoriscono l’autonomia e la partecipazione attiva, riducendo il carico cognitivo associato a determinate difficoltà.

Le misure dispensative, invece, hanno lo scopo di esonerare l’alunno da alcune attività che risulterebbero eccessivamente penalizzanti e non significative per il suo percorso di apprendimento. Esempi tipici sono l’esonero dalla lettura ad alta voce, dalla scrittura sotto dettatura o dal copiare dalla lavagna; la riduzione del numero di esercizi; i tempi aggiuntivi per le prove scritte; o la possibilità di programmare interrogazioni in anticipo. Queste misure non rappresentano un vantaggio, ma un modo per garantire equità: lo studente con difficoltà deve poter dimostrare le proprie competenze nelle stesse condizioni di efficacia dei compagni, evitando che la modalità di verifica diventi un ostacolo.

Tutti questi interventi confluiscono nel Piano Didattico Personalizzato (PDP), documento previsto dalla Legge 170/2010 e dalle relative Linee guida ministeriali. Il PDP è il cuore operativo dell’inclusione: delinea le strategie didattiche, gli strumenti compensativi, le misure dispensative e le modalità di verifica più idonee per ciascuno studente. Viene elaborato dal consiglio di classe in collaborazione con la famiglia e, se necessario, con gli specialisti che seguono l’alunno. Il documento deve essere redatto entro il primo trimestre dell’anno scolastico, aggiornato ogni anno e, all’occorrenza, modificato nel corso dell’anno per adeguarlo ai progressi e ai bisogni emergenti.

Fondamentale è comprendere che il PDP non è un atto burocratico, ma un vero e proprio progetto formativo personalizzato. La sua finalità è duplice: da un lato garantire il diritto allo studio e la valutazione equa, dall’altro promuovere l’inclusione, riconoscendo e valorizzando la diversità come risorsa per l’intera comunità scolastica. La flessibilità del PDP, spesso definito come un documento “da scrivere a matita”, rappresenta la chiave del suo valore pedagogico: può e deve essere ricalibrato ogni volta che si rilevi la necessità di adattare le strategie all’evoluzione dello studente.

L’approccio inclusivo richiede quindi un docente capace di osservare, mediare e costruire percorsi personalizzati, ponendo attenzione non solo alle difficoltà ma anche alle potenzialità di ogni alunno. In questa visione, il PDP diventa non soltanto un obbligo normativo, ma uno strumento di equità e di giustizia educativa, in linea con il principio sancito dalle Nazioni Unite secondo cui “l’educazione inclusiva è un diritto umano e un mezzo per realizzare una società più giusta e solidale”.

La gestione dei Bisogni Educativi Speciali e la distinzione tra DSA, DES e situazioni di svantaggio

Comprendere la complessità dei Bisogni Educativi Speciali (BES) significa riconoscere che non tutti gli studenti partono dalle stesse condizioni di apprendimento e che, per garantire un reale diritto allo studio, occorre modulare l’intervento educativo in modo flessibile e mirato. Il concetto di BES, introdotto dal Ministero dell’Istruzione nel 2012 con la Direttiva ministeriale del 27 dicembre, rappresenta un’evoluzione importante nella pedagogia inclusiva italiana: non si limita più alle disabilità certificate, ma estende la personalizzazione didattica a tutti coloro che, anche per periodi limitati, necessitano di un supporto specifico.

La Direttiva individua tre grandi aree di BES: la disabilità, i disturbi evolutivi specifici e le situazioni di svantaggio socio-economico, linguistico e culturale. Ognuna richiede strumenti, strategie e documenti differenti.

La prima area riguarda gli studenti con disabilità certificate ai sensi della Legge 104/1992, che necessitano di un Piano Educativo Individualizzato (PEI). Il PEI è un documento complesso e multidisciplinare, redatto in collaborazione tra scuola, famiglia e servizi sanitari, e delinea un progetto educativo e didattico calibrato sulle potenzialità e sulle necessità dello studente. In questo caso, l’intervento scolastico si inserisce all’interno del più ampio “progetto di vita” della persona, previsto oggi anche dal Decreto Legislativo 62/2024, che sottolinea la centralità dell’autodeterminazione e della partecipazione attiva della persona con disabilità.

La seconda area comprende i Disturbi Evolutivi Specifici (DES), all’interno dei quali troviamo i più noti Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA): dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia. A questi si aggiungono altri disturbi, come l’ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), i disturbi del linguaggio, della coordinazione motoria, dell’apprendimento non verbale e il funzionamento intellettivo limite. Per questi studenti non è previsto il PEI, ma il Piano Didattico Personalizzato (PDP), redatto sulla base di una diagnosi rilasciata da strutture pubbliche o private accreditate. Il PDP rappresenta una risposta concreta alla Legge 170/2010, che ha riconosciuto i DSA come disturbi permanenti e ha sancito l’obbligo per le scuole di adottare misure di personalizzazione per garantire pari opportunità di apprendimento e valutazione.

Infine, la terza area include le situazioni di svantaggio temporaneo, non derivanti da diagnosi cliniche ma da contesti che incidono sul rendimento e sulla partecipazione scolastica. Può trattarsi, ad esempio, di studenti con difficoltà linguistiche dovute a un recente inserimento in Italia, di ragazzi che vivono situazioni familiari difficili, di condizioni economiche svantaggiate o di studenti lavoratori. Anche in questi casi è possibile redigere un PDP, pur in assenza di certificazione, quando il consiglio di classe ritiene necessario formalizzare strategie didattiche personalizzate per evitare la dispersione o l’esclusione scolastica.

È importante sottolineare che la scuola non certifica i BES, ma li individua: il compito dei docenti è osservare e segnalare eventuali difficoltà, attivando misure di supporto e personalizzazione anche in assenza di diagnosi formale. In tal senso, il consiglio di classe svolge un ruolo centrale, poiché può proporre e deliberare un PDP motivato dalle evidenze pedagogiche e dai bisogni osservati.

Le strategie per gli studenti in situazione di svantaggio non sono standardizzate, ma flessibili. Possono comprendere tempi aggiuntivi per le prove, riduzione del carico di compiti, personalizzazione delle modalità di verifica, uso di mediatori visivi e strumenti digitali, o semplici accorgimenti organizzativi (come l’ingresso posticipato per chi lavora). La finalità non è offrire “privilegi”, bensì rendere la scuola un ambiente equo, dove ciascuno possa apprendere secondo le proprie capacità e condizioni.

Questa visione amplia la portata della didattica inclusiva: il PDP e il PEI non sono più strumenti riservati a pochi, ma modelli di riferimento per una scuola capace di adattarsi alle differenze. L’inclusione, infatti, non è un atto tecnico, ma una cultura professionale fondata sull’osservazione, sulla cooperazione tra docenti e sul dialogo con le famiglie e i servizi. Solo attraverso questo approccio integrato la scuola può diventare davvero “per tutti e per ciascuno”, come auspicato dalle politiche europee e dalle linee UNESCO sull’educazione inclusiva.

La gestione del gruppo classe e i modelli pedagogici di riferimento

La gestione del gruppo classe rappresenta uno degli aspetti più complessi e delicati del lavoro docente. Non si tratta soltanto di mantenere l’ordine o di gestire comportamenti problematici, ma di creare un ambiente di apprendimento positivo, collaborativo e partecipato, in cui ogni studente si senta riconosciuto e valorizzato. In pedagogia, la classe è considerata un microcosmo sociale, dove si intrecciano dinamiche cognitive, emotive e relazionali che influenzano profondamente i processi di apprendimento. Per questo motivo, nel corso degli anni, diversi studiosi hanno elaborato modelli teorici per aiutare gli insegnanti a comprendere e migliorare la gestione dei gruppi.

Uno dei primi riferimenti è Jacob Kounin, psicologo statunitense che negli anni ’70 introdusse il concetto di classroom management moderno. La sua ricerca evidenziò che il comportamento del docente influisce direttamente sul comportamento degli studenti e che la prevenzione dei problemi è più efficace della loro correzione. Kounin propose l’idea di withitness – la “presenza consapevole” dell’insegnante –, ovvero la capacità di percepire ciò che accade in classe anche quando non si guarda direttamente una situazione. L’insegnante “dentro la classe”, come lo definiva Kounin, è colui che mantiene un contatto visivo e relazionale costante con il gruppo, anticipa i comportamenti problematici e utilizza i movimenti e la comunicazione non verbale come strumenti educativi. Da questa prospettiva nasce anche il celebre “effetto onda”: l’azione correttiva rivolta a un singolo studente deve estendersi all’intero gruppo, in modo da generare apprendimento collettivo e prevenire futuri episodi.

Negli stessi anni, Lee Canter sviluppò il modello dell’assertive discipline, ponendo l’accento sul rispetto reciproco e sulla chiarezza comunicativa. Secondo Canter, la qualità del clima di classe dipende dall’equilibrio tra i diritti di studenti e docenti. Gli allievi hanno diritto a un ambiente sereno, a essere aiutati nei momenti di difficoltà e a conoscere le conseguenze dei propri comportamenti; gli insegnanti, d’altro canto, hanno diritto di stabilire regole chiare, di farle rispettare e di essere sostenuti dalla scuola e dalle famiglie nella loro azione educativa. L’assertività, per Canter, non è un atteggiamento innato ma una competenza che si conquista con la pratica: consiste nella capacità di esprimere le proprie aspettative con fermezza ma senza aggressività, comunicando in modo chiaro, coerente e rispettoso.

Un altro contributo fondamentale è quello del neuropsichiatra Frederick Jones, che concepisce la figura del docente come un “controllore di volo” dell’ambiente scolastico, chiamato a gestire simultaneamente centinaia di microazioni quotidiane. Secondo Jones, un insegnante efficace è colui che comunica anche con il corpo: la gestualità, la postura, lo sguardo e il tono della voce trasmettono messaggi educativi tanto quanto le parole. La prossimità fisica – il semplice avvicinarsi allo studente – diventa una strategia potente di relazione e di controllo: non è coercizione, ma disponibilità all’aiuto. Jones descrive il “modello dell’aiuto autentico” come un processo in tre fasi: avvicinarsi allo studente per comprendere la difficoltà, offrire indicazioni chiare sul modo di affrontarla e poi allontanarsi, lasciandolo agire in autonomia. In questa visione, la finalità ultima della scuola è l’autonomia dello studente, non la dipendenza dal docente.

Più recente è il modello di Robert Marzano, che parla di dominanza autorevole o positiva. Marzano distingue l’autorità autoritaria da quella autorevole: la prima impone, la seconda guida. Secondo le sue ricerche, i docenti autorevoli hanno fino al 30% in meno di problemi disciplinari rispetto agli altri. L’insegnante autorevole è deciso ma empatico, chiaro nelle regole, coerente nelle decisioni e credibile agli occhi dei propri studenti. Marzano individua tre elementi essenziali di questa dominanza positiva: la comunicazione chiara delle aspettative e delle conseguenze; la costruzione di interazioni positive basate sull’ascolto e sulla fiducia; e la coerenza tra ciò che l’insegnante dice e ciò che fa. Solo un docente coerente può essere percepito come giusto e quindi autorevole.

Tutti questi modelli, pur diversi nelle origini e nei linguaggi, condividono un principio comune: la qualità della relazione educativa è il fondamento della gestione efficace della classe. Un gruppo ben gestito non nasce dal controllo, ma dall’autenticità, dalla coerenza e dalla fiducia. L’insegnante che si muove, che comunica con chiarezza, che ascolta e accompagna con equilibrio, non solo riduce i comportamenti problematici, ma costruisce un clima di apprendimento fertile, in cui ogni studente può sentirsi parte attiva del processo educativo.

Il profilo del docente inclusivo e le competenze chiave per l’inclusione scolastica

La figura del docente inclusivo rappresenta oggi uno dei cardini della scuola contemporanea. Non si tratta più soltanto di un insegnante “attento ai bisogni degli studenti fragili”, ma di un professionista capace di costruire ambienti di apprendimento equi, flessibili e sensibili alle diversità di tutti. L’inclusione non è una metodologia a sé, ma un modo di intendere l’educazione, un atteggiamento che orienta la didattica, la relazione e l’organizzazione scolastica nel suo insieme.

Il docente inclusivo è, prima di tutto, un osservatore competente. Sa riconoscere i segnali di difficoltà, distinguere tra bisogni transitori e disturbi strutturati, individuare i punti di forza di ogni studente. L’osservazione è la base per progettare percorsi personalizzati e realistici, che mirano non alla “normalizzazione” ma al potenziamento delle potenzialità individuali. Per essere efficace, questo tipo di insegnante deve padroneggiare almeno tre grandi ambiti di conoscenza: le neuroscienze educative, la psicologia dello sviluppo e la normativa sull’inclusione.

Le neuroscienze offrono oggi un contributo essenziale alla comprensione dei processi di apprendimento e di comportamento. Sapere come funziona il cervello di un bambino o di un adolescente, conoscere i meccanismi dell’attenzione, della memoria, della motivazione e dell’emotività, consente di calibrare la didattica in modo più efficace e rispettoso dei tempi cognitivi di ciascuno. Un docente che conosce i principi del funzionamento cerebrale evita di “sovraccaricare” l’alunno, comprende la genesi degli errori e li interpreta non come fallimenti, ma come tappe naturali dell’apprendimento.

La psicologia dello sviluppo, a sua volta, aiuta a leggere il comportamento dell’alunno nel suo contesto evolutivo. Un docente inclusivo non giudica il comportamento problematico come mera “disobbedienza”, ma cerca di comprenderne le cause, riconoscendo che ogni azione comunica un bisogno. L’empatia e la capacità di mettersi nei panni dello studente diventano competenze professionali fondamentali.

Sul piano normativo, il docente deve conoscere le principali disposizioni in materia di inclusione: dalla Legge 104/1992 e dal D.Lgs. 66/2017 (sull’inclusione degli alunni con disabilità), alla Legge 170/2010 (sui DSA) e alle Linee guida sui BES. La conoscenza delle norme non serve a fini burocratici, ma per garantire diritti e per costruire documenti inclusivi (PEI, PDP, progetti di vita) realmente efficaci.

Alle conoscenze si affiancano le competenze professionali, ovvero il saper fare del docente. Tra queste, spiccano la capacità di redigere e monitorare la documentazione inclusiva (PEI, PDP, relazioni di sintesi, osservazioni sistematiche), l’abilità di progettare interventi psicoeducativi per la gestione dei comportamenti problematici e la padronanza delle strategie didattiche inclusive. Un insegnante inclusivo sa differenziare gli obiettivi, scegliere strumenti adeguati, modulare tempi e modalità di verifica, valutare per competenze, e creare situazioni di apprendimento autentico – come i compiti di realtà o le prove pratiche – che valorizzino le abilità di ciascuno.

Un aspetto fondamentale riguarda la gestione delle relazioni. Il docente inclusivo costruisce un clima di fiducia, evita escalation conflittuali, comunica in modo assertivo e gestisce gli imprevisti con equilibrio. Saper “fermarsi”, rinviare un intervento o cambiare strategia in corso d’opera è indice di maturità professionale, non di debolezza. La relazione educativa si basa sulla reciprocità: ogni studente percepisce l’atteggiamento del docente e vi risponde in modo speculare. Un insegnante sereno, coerente e rispettoso genera comportamenti più positivi e collaborativi.

Accanto alle competenze tecniche, il docente inclusivo coltiva le abilità personali e sociali: la riflessività, l’autoconsapevolezza, la capacità di gestire le emozioni e di leggere quelle altrui. Essere “emotivamente competenti” significa riconoscere l’impatto delle proprie parole e dei propri gesti, controllare l’impulsività e saper comunicare anche nelle situazioni di tensione. L’assertività, in questa prospettiva, è una competenza relazionale chiave: implica dire la verità con chiarezza ma senza ferire, mantenendo sempre la dignità di chi apprende.

Infine, il docente inclusivo è un professionista in formazione permanente. La scuola di oggi cambia rapidamente, e solo chi continua a studiare, aggiornarsi e confrontarsi può mantenere viva la propria efficacia educativa. Come ricordava Don Milani, “ogni studente perso è una sconfitta per la scuola intera”: per questo l’inclusione non è un compito aggiuntivo, ma il cuore della missione educativa.

Il progetto di vita e il nuovo paradigma dell’inclusione secondo il D.Lgs. 62/2024

Con l’approvazione del Decreto Legislativo n. 62 del 2024, il sistema italiano dell’inclusione ha compiuto un passo decisivo verso una concezione più moderna e centrata sulla persona. Il nuovo progetto di vita introduce infatti un cambio di paradigma radicale: la disabilità non è più vista come un insieme di limiti da compensare, ma come una condizione di vita da sostenere attraverso percorsi personalizzati, partecipati e orientati all’autodeterminazione.

Il decreto definisce il progetto di vita come un piano individualizzato e partecipato della persona con disabilità. L’uso della preposizione “della” e non “per la” non è un dettaglio linguistico, ma esprime un principio etico e culturale fondamentale: la persona con disabilità non è destinataria passiva di interventi, bensì protagonista attiva del proprio percorso esistenziale. Ciò significa che ogni scelta, ogni obiettivo e ogni misura devono partire dai desideri, dalle aspirazioni e dai bisogni espressi dalla persona stessa, che diventa il centro del processo decisionale.

Il progetto di vita si fonda su una visione olistica dell’individuo, in cui gli interventi educativi, sanitari, sociali e lavorativi non agiscono più separatamente, ma si intrecciano per garantire coerenza e continuità. Si supera così la frammentazione dei servizi che per anni ha costretto le persone con disabilità e le loro famiglie a rivolgersi a enti diversi per ottenere assistenza, istruzione, riabilitazione o sostegni economici. Ora sono gli enti stessi – scuola, sanità, servizi sociali, terzo settore – a riunirsi attorno alla persona, condividendo obiettivi comuni e costruendo un percorso unitario.

Questo approccio è coerente con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009), che pone al centro il principio di autodeterminazione. L’individuo non viene più definito dalle sue “mancanze”, ma dalle sue potenzialità. La parola chiave non è più “assistenza”, bensì “partecipazione”. In tal senso, il progetto di vita diventa uno strumento di cittadinanza attiva: consente alla persona di scegliere, con il supporto di una rete di professionisti e familiari, il proprio percorso di studio, di lavoro, di salute e di benessere sociale.

Elemento fondante del progetto è la valutazione multidimensionale, condotta secondo il modello dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questo modello, che sostituisce l’ottica puramente medica con una visione bio-psico-sociale, valuta la persona non solo in base alle sue condizioni cliniche, ma considerando i contesti in cui vive e agisce, le barriere ambientali e i facilitatori che possono favorirne la partecipazione. L’obiettivo è individuare, accanto alle difficoltà, le risorse individuali e ambientali che permettono di realizzare un percorso di vita attivo e soddisfacente.

Due sono i principi cardine del nuovo paradigma:

  • L’accomodamento ragionevole, ovvero l’insieme degli adattamenti e delle modifiche necessarie per garantire alle persone con disabilità pari opportunità di accesso, partecipazione e successo nei vari contesti di vita. Questo principio, già previsto dalla Convenzione ONU, impone di rimuovere gli ostacoli che limitano la partecipazione sociale, anche attraverso soluzioni personalizzate.
  • L’autodeterminazione, cioè il diritto di ogni persona a compiere scelte autonome e significative per la propria esistenza. La scuola, in questa prospettiva, diventa il primo luogo in cui si apprendono le competenze necessarie per esercitare tale diritto: la capacità di decidere, di esprimersi, di partecipare attivamente.

Il concetto chiave che attraversa tutto il decreto è quello di attività, intesa non come compito esecutivo ma come insieme di azioni orientate a uno scopo. L’attività rappresenta il segno concreto della partecipazione: non è la malattia a definire la persona, ma ciò che la persona è in grado di fare e di realizzare. Due persone con la stessa diagnosi possono avere livelli di attività completamente diversi, e proprio queste differenze individuali diventano il punto di partenza per progettare interventi personalizzati.

Il progetto di vita è inoltre dinamico e flessibile. Come tutti i documenti inclusivi, deve poter essere modificato nel tempo: scritto “a matita”, come spesso si dice in ambito educativo. Le condizioni di una persona possono cambiare, così come i suoi obiettivi o le opportunità offerte dal territorio; per questo il progetto non ha una validità fissa, ma evolve con la vita stessa. A sostenerlo intervengono fondi regionali, nazionali ed europei, e il coinvolgimento del terzo settore può rappresentare un valore aggiunto nella costruzione di percorsi personalizzati.

In definitiva, il progetto di vita segna il passaggio da un modello assistenziale a un modello dei diritti e delle competenze, in cui la persona con disabilità diventa protagonista del proprio futuro. Per la scuola, ciò significa promuovere un’educazione orientata all’autonomia e alla partecipazione, in continuità con il progetto formativo delineato dal PEI. In questo senso, il docente non è più solo un trasmettitore di saperi, ma un facilitatore di percorsi, un ponte tra la scuola e la società, capace di contribuire alla costruzione di una reale cittadinanza inclusiva.

Dalla teoria alla pratica: strategie operative e ruolo della scuola nel progetto di vita

Trasformare i principi del progetto di vita in azioni concrete significa ripensare il ruolo della scuola come parte attiva di una rete di sostegno più ampia. L’istituzione scolastica non è più un luogo separato dal resto della società, ma un nodo strategico in cui si intrecciano educazione, formazione, salute e inclusione sociale. Il docente, in questo quadro, diventa un facilitatore di percorsi di autonomia: non colui che “fa per” lo studente con disabilità, ma chi “fa con” lo studente, sostenendolo nel costruire competenze e consapevolezza di sé.

Perché ciò sia possibile, la scuola deve sviluppare una progettualità inclusiva che unisca il Piano Educativo Individualizzato (PEI) e il progetto di vita in un continuum coerente. Il PEI, che rappresenta la dimensione scolastica dell’inclusione, non può essere pensato come documento isolato: diventa la prima tappa del percorso esistenziale che proseguirà, negli anni, nel progetto di vita. Le finalità educative devono quindi andare oltre il successo scolastico immediato, orientandosi a obiettivi di autonomia personale, partecipazione sociale e inserimento lavorativo.

In questa prospettiva, il docente di sostegno e l’intero consiglio di classe sono chiamati a promuovere una didattica attiva, flessibile e partecipativa, che favorisca l’apprendimento significativo. Alcune strategie risultano particolarmente efficaci:

  • L’apprendimento cooperativo, che valorizza il lavoro di gruppo e la corresponsabilità, permettendo agli studenti di aiutarsi reciprocamente e di sviluppare competenze relazionali.
  • La didattica laboratoriale, in cui il “fare” diventa veicolo di apprendimento e strumento di inclusione, perché riduce la distanza tra teoria e pratica.
  • L’uso di mediatori visivi e tecnologici, come mappe concettuali, immagini, video, software didattici, che favoriscono la comprensione anche nei casi di disturbi specifici dell’apprendimento o di difficoltà linguistiche.
  • La valutazione per competenze, centrata non sul punteggio ma sulla crescita individuale, sull’impegno e sull’acquisizione di abilità concrete spendibili nel mondo reale.

Fondamentale è poi il lavoro in rete. Il nuovo paradigma dell’inclusione non si limita al contesto scolastico, ma si estende al territorio: enti locali, servizi sanitari, associazioni, cooperative e famiglie devono collaborare in modo sistematico. La scuola, attraverso il dirigente, il gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI) e il team docente, può coordinare tavoli interistituzionali, condividere obiettivi e monitorare l’efficacia degli interventi. È in questa sinergia che prende forma la presa in carico olistica della persona, cuore del decreto legislativo 62/2024.

Un altro elemento cruciale è la continuità educativa: l’inclusione non può interrompersi al termine del ciclo scolastico. Per questo, la scuola ha il compito di preparare il terreno per la fase successiva, favorendo percorsi di transizione verso l’università, la formazione professionale o il mondo del lavoro. In tale passaggio, il progetto di vita diventa il riferimento unificante, capace di garantire coerenza tra le esperienze scolastiche e le scelte future della persona.

Il docente, in questo scenario, assume un ruolo relazionale e formativo di grande responsabilità. Deve saper ascoltare i desideri dello studente, tradurli in obiettivi concreti e, insieme alla rete dei servizi, costruire un piano che ne sostenga la realizzazione. Ogni attività scolastica, anche la più semplice, può contribuire alla crescita personale se è orientata al senso e all’autonomia. Un laboratorio di cucina, un progetto artistico, un’esperienza di volontariato o uno stage formativo possono diventare, se ben strutturati, tappe fondamentali del progetto di vita.

Occorre infine ricordare che l’inclusione non è mai un processo lineare: richiede monitoraggio, riflessione e flessibilità. La scuola deve adottare strumenti di verifica periodica, incontri di valutazione e momenti di confronto con la famiglia e gli operatori esterni, per aggiornare il progetto in base ai cambiamenti della persona e del contesto.

In sintesi, il ruolo della scuola nel progetto di vita è quello di aprire strade, non di chiuderle. Educare all’autonomia significa dare agli studenti la possibilità di scegliere, di sbagliare, di sperimentare e di costruire, passo dopo passo, la propria identità adulta. È questa la vera inclusione: un processo continuo, condiviso e profondamente umano, che trasforma la scuola in un laboratorio di cittadinanza attiva e di libertà.

Box pratici riassuntivi

Punti chiave

  • I Bisogni Educativi Speciali comprendono disabilità, disturbi evolutivi specifici e situazioni di svantaggio temporaneo o permanente.
  • Gli strumenti compensativi e le misure dispensative sono essenziali per garantire pari opportunità di apprendimento e valutazione.
  • Il Piano Didattico Personalizzato (PDP) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI) sono documenti dinamici che vanno aggiornati e adattati ogni anno.
  • La gestione del gruppo classe si fonda su modelli educativi che valorizzano la presenza attiva, la comunicazione assertiva e la costruzione di relazioni positive.
  • Il docente inclusivo unisce competenze neuroscientifiche, psicologiche, normative e relazionali per garantire un apprendimento equo e personalizzato.
  • Il progetto di vita, introdotto dal D.Lgs. 62/2024, pone la persona con disabilità al centro del proprio percorso, superando la logica assistenziale e valorizzando l’autodeterminazione.
  • L’inclusione è un processo continuo che coinvolge scuola, famiglia, servizi territoriali e comunità, in una prospettiva di cittadinanza attiva.

Errori comuni

  • Confondere l’inclusione con l’integrazione, riducendola a una semplice “presenza” in classe senza reale partecipazione.
  • Redigere il PDP come documento formale anziché come progetto educativo dinamico.
  • Applicare misure dispensative in modo rigido o standardizzato, senza considerare i bisogni individuali.
  • Interpretare l’assertività come rigidità o autoritarismo, anziché come equilibrio tra fermezza e rispetto.
  • Delegare l’inclusione al solo docente di sostegno, trascurando la corresponsabilità dell’intero consiglio di classe.
  • Limitare il progetto di vita a un piano burocratico, senza coinvolgere realmente la persona nelle decisioni.

Checklist per la pratica inclusiva

  • Osservare sistematicamente i bisogni di ciascun alunno.
  • Attivare tempestivamente la collaborazione con famiglia e specialisti.
  • Redigere e aggiornare PDP e PEI entro le scadenze normative.
  • Integrare la didattica con strategie cooperative, laboratoriali e tecnologiche.
  • Promuovere la partecipazione di tutti nelle attività di gruppo.
  • Monitorare costantemente i progressi e modificare gli interventi se necessario.
  • Collegare le finalità del PEI al progetto di vita, per garantire continuità educativa.
  • Curare la comunicazione assertiva e la relazione empatica con la classe.

Suggerimenti operativi

  • Costruisci il clima di classe fin dai primi giorni, stabilendo regole chiare e condivise.
  • Alterna momenti frontali a dinamiche cooperative, per favorire la partecipazione.
  • Usa strumenti visivi e digitali per diversificare le modalità di accesso ai contenuti.
  • Condividi con la famiglia i progressi e le difficoltà, mantenendo un dialogo costante.
  • Promuovi progetti di continuità scuola-lavoro o di orientamento formativo che si colleghino al progetto di vita.
  • Inserisci momenti di riflessione metacognitiva: aiutare lo studente a capire “come impara” è un passo verso l’autonomia.

Fonti e letture consigliate

  • Ministero dell’Istruzione e del Merito, Linee guida per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità (D.Lgs. 66/2017 e successive modifiche).
  • Legge 104/1992 – Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.
  • Legge 170/2010 – Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico.
  • D.Lgs. 62/2024 – Attuazione del progetto di vita e revisione dei processi di presa in carico delle persone con disabilità.
  • Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (2001).
  • Marzano, R. J. (2017). Classroom Management That Works: Research-Based Strategies for Every Teacher. ASCD.
  • Canevaro, A. (a cura di). (2019). Pedagogia speciale e inclusione. Erickson.
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