Dal Testo Unico del 1994 alla stagione delle riforme
Per comprendere l’autonomia delle istituzioni scolastiche in Italia è necessario partire da un riferimento normativo precedente al 1997: il Decreto legislativo 297 del 16 aprile 1994, meglio conosciuto come Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione. Questo provvedimento, ancora oggi rilevante in diverse parti, rappresenta il quadro di sintesi della normativa scolastica del tempo, includendo al suo interno disposizioni che regolano gli organi collegiali, il funzionamento delle scuole e i rapporti tra Stato e istituzioni scolastiche.
Il Testo Unico ha avuto il merito di raccogliere e coordinare una vasta normativa frammentata, fornendo un punto di riferimento organico per il mondo della scuola. Sebbene molte delle sue disposizioni siano state superate dall’avvento dell’autonomia scolastica, restano tuttora pienamente valide quelle relative agli organi collegiali: collegio dei docenti, consigli di classe, di interclasse e di intersezione, consiglio di istituto, giunta esecutiva e comitato di valutazione del servizio docente. Conoscere funzioni e competenze di questi organi, tuttora disciplinate dal decreto del 1994, è essenziale per comprendere il sistema scolastico italiano e il ruolo partecipativo di insegnanti, studenti e famiglie.
Il passaggio alla riforma Bassanini
La vera svolta arriva qualche anno dopo con la legge 59 del 1997, nota come riforma Bassanini. Si tratta di un provvedimento fondamentale non solo per la scuola, ma per l’intero assetto della pubblica amministrazione, poiché avvia un ampio processo di decentramento e ridefinizione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali. Per la scuola, la novità più significativa è l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, sancita all’articolo 21 della legge. Per la prima volta, alle scuole viene riconosciuta una sfera autonoma di responsabilità in materia organizzativa e didattica, pur nel rispetto degli obiettivi generali del sistema nazionale di istruzione.
La legge 59/1997 è accompagnata dal Decreto legislativo 112 del 1998, che dettaglia il trasferimento di funzioni amministrative agli enti territoriali, e soprattutto dal DPR 275 del 1999, il cosiddetto Regolamento dell’autonomia. Quest’ultimo segna un momento cruciale perché stabilisce in modo organico i contenuti, i limiti e gli strumenti attraverso cui le scuole possono esercitare la loro autonomia.
Il regolamento del 1999: l’autonomia prende forma
Il DPR 275/1999 chiarisce che l’autonomia scolastica non coincide con un generico decentramento, ma si configura come autonomia funzionale. Ciò significa che le scuole non hanno la libertà di ridefinire fini e obiettivi del sistema educativo (che restano stabiliti a livello nazionale), ma possono gestire in maniera autonoma l’organizzazione interna, le scelte metodologiche e la progettazione didattica. L’autonomia, dunque, è finalizzata a garantire il successo formativo degli studenti, rispettando i principi di equità, omogeneità e valore legale dei titoli di studio.
In questo quadro, le scuole diventano responsabili dell’elaborazione del Piano dell’Offerta Formativa (POF), poi evoluto in Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) con la legge 107/2015. Questo documento rappresenta la traduzione concreta dell’autonomia: attraverso di esso ogni istituto definisce la propria identità, stabilisce priorità educative e organizza attività didattiche e progettuali calibrate sulle esigenze del territorio e dell’utenza.
Il regolamento del 1999 specifica inoltre i limiti entro i quali l’autonomia deve operare. Le scuole possono modulare orari, articolare percorsi, aggregare discipline, introdurre flessibilità didattica e organizzativa, ma sempre nel rispetto degli obiettivi nazionali fissati dal Ministero e dei livelli essenziali delle prestazioni, che garantiscono uniformità su tutto il territorio. In altre parole, l’autonomia non è arbitrio: è libertà entro un perimetro preciso, pensato per conciliare l’adattamento al contesto locale con la necessità di tutelare l’uguaglianza degli studenti.
Un cambiamento di paradigma
Il passaggio dal Testo Unico del 1994 al Regolamento dell’autonomia del 1999 segna un cambiamento profondo. Se il primo rappresentava un sistema centralizzato e uniforme, il secondo inaugura un modello policentrico, in cui le scuole diventano attori protagonisti e responsabili. È in questa fase che il concetto di autonomia entra stabilmente nel lessico scolastico italiano, destinato a ridefinire rapporti, ruoli e responsabilità negli anni successivi.
La riforma Bassanini e la nascita dell’autonomia scolastica
Un federalismo “a Costituzione invariata”
La legge 59 del 1997, conosciuta come riforma Bassanini, rappresenta un punto di svolta per la scuola italiana. Con essa prende forma un modello definito di “federalismo a Costituzione invariata”: senza modificare la Carta costituzionale, il legislatore trasferisce agli enti territoriali – Regioni, Province e Comuni – numerose competenze amministrative che in precedenza erano concentrate a livello centrale. All’interno di questo disegno si colloca l’articolo 21, dedicato specificamente alle istituzioni scolastiche, che introduce l’autonomia come principio cardine.
Il senso di questa scelta è legato al principio di sussidiarietà, di derivazione europea, secondo cui le decisioni devono essere prese dal livello di governo più vicino ai cittadini. Applicato alla scuola, significa che le singole istituzioni scolastiche, operando a stretto contatto con studenti e famiglie, sono più in grado di intercettare i bisogni educativi del territorio rispetto a un ministero centrale distante. L’autonomia nasce quindi come strumento per avvicinare la gestione scolastica alle esigenze reali delle comunità.
Autonomia come concetto relazionale
Il termine “autonomia” non va inteso in senso assoluto. È un concetto relazionale, perché esiste sempre in rapporto a un altro soggetto da cui ci si emancipa. Nel caso delle scuole, l’autonomia va intesa come libertà rispetto al Ministero, agli uffici periferici e, in parte, anche agli enti territoriali, ma sempre entro i confini fissati dalla legge e dalla Costituzione. L’autonomia scolastica non equivale dunque a indipendenza totale, bensì a una capacità di scelta circoscritta e orientata a un fine preciso: garantire il diritto allo studio e il successo formativo degli studenti.
Un esempio utile per chiarire questo aspetto riguarda gli studenti stessi: quando si valuta la loro autonomia nello studio, non si intende libertà assoluta, ma capacità di svolgere compiti senza l’aiuto costante di insegnanti o genitori. Analogamente, le scuole sono autonome nella misura in cui possono progettare e organizzare percorsi formativi senza dover chiedere autorizzazioni continue agli organi centrali.
Gli obiettivi dell’autonomia
L’articolo 21 della legge Bassanini non si limita a trasferire funzioni, ma ne chiarisce la finalità: favorire il successo formativo. Le istituzioni scolastiche vengono messe in condizione di modulare l’attività didattica e organizzativa in base al contesto territoriale e alle caratteristiche degli studenti, mantenendo però ferme alcune garanzie comuni a livello nazionale. È in questo contesto che si sviluppa il concetto di Piano dell’Offerta Formativa (POF), destinato a diventare lo strumento identitario di ciascuna scuola e a evolversi nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) con la legge 107/2015.
Il legame tra autonomia e personalizzazione dell’insegnamento è immediato: l’idea è che scuole radicate nel proprio territorio possano rispondere più efficacemente alle esigenze delle famiglie, valorizzare le risorse locali, costruire alleanze educative con enti e associazioni. L’autonomia diventa così il presupposto per una scuola capace di innovare e di adattarsi, mantenendo al tempo stesso un orizzonte nazionale di equità.
Autonomia e limiti nazionali
Fin dall’inizio, la riforma stabilisce che l’autonomia scolastica si esercita nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP). In altre parole, ogni scuola può adattare programmi e organizzazione, ma deve comunque garantire standard comuni di qualità e apprendimento, affinché i titoli di studio abbiano lo stesso valore legale in tutto il Paese. Senza questo vincolo, un diploma ottenuto a Milano potrebbe non equivalere a uno conseguito a Palermo, minando il principio di uguaglianza.
La tensione tra libertà e uniformità costituisce ancora oggi uno degli elementi più delicati dell’autonomia scolastica. L’obiettivo è trovare un equilibrio: da un lato permettere alle scuole di esprimere la propria identità e rispondere alle esigenze locali, dall’altro assicurare coerenza e qualità del sistema educativo nazionale.
Autonomia scolastica e decentramento: due concetti da non confondere
Il decentramento amministrativo
Il decentramento, in senso generale, indica il trasferimento di funzioni dallo Stato centrale alle amministrazioni periferiche. È un processo che sposta competenze e responsabilità senza modificare la natura delle decisioni: ciò che prima veniva gestito da un ministero, viene delegato a Regioni, Province o Comuni. Si tratta dunque di un trasferimento di “poteri amministrativi” da un livello superiore a uno inferiore, mantenendo però intatti i principi ispiratori del sistema.
Un esempio tipico di decentramento riguarda la gestione dei servizi di supporto agli studenti con disabilità: competenze e risorse organizzative vengono collocate presso gli enti locali (Comuni per il primo ciclo, Province per il secondo ciclo), mentre lo Stato mantiene il compito di definire le norme generali.
L’autonomia come dimensione funzionale
L’autonomia scolastica, introdotta con la legge 59/1997 e regolata dal DPR 275/1999, non coincide con un mero decentramento. Non si tratta solo di spostare compiti dalla periferia al centro o viceversa, ma di riconoscere alle scuole una funzione propria. L’autonomia è infatti definita “funzionale”: riguarda il modo in cui le istituzioni scolastiche organizzano la didattica, l’offerta formativa e la gestione interna.
A differenza del decentramento, che può esistere anche senza mutare il ruolo degli attori coinvolti, l’autonomia modifica l’identità stessa delle scuole, attribuendo loro la responsabilità di progettare e realizzare percorsi educativi calibrati sugli studenti e sul territorio.
Finalità e obiettivi
La distinzione non è puramente teorica. Mentre il decentramento mira soprattutto a razionalizzare la distribuzione delle competenze, l’autonomia scolastica nasce per innescare un cambiamento culturale e organizzativo. Le scuole non sono più meri esecutori di direttive ministeriali, ma diventano centri di progettazione educativa.
In concreto, questo significa che possono:
- modulare orari e organizzazione interna, entro i limiti stabiliti dallo Stato;
- elaborare un Piano dell’Offerta Formativa che rifletta le esigenze della comunità scolastica;
- attivare percorsi personalizzati e flessibili;
- stabilire forme di collaborazione con enti territoriali, associazioni e imprese.
Tutto ciò, però, non deve essere confuso con un’autonomia politica. Le scuole non hanno la facoltà di scegliere i fini del sistema educativo, che restano fissati a livello nazionale. La loro autonomia è dunque operativa e organizzativa, non legislativa o ideologica.
Un equilibrio complesso
Questa differenza tra autonomia e decentramento si riflette ancora oggi nel dibattito pubblico. In alcune stagioni politiche, l’accento è stato posto sul decentramento regionale (come nella riforma costituzionale del 2001), mentre in altre si è cercato di rafforzare l’autonomia delle singole scuole. L’equilibrio tra i due processi è delicato: troppo decentramento rischia di creare disomogeneità tra territori, troppa autonomia potrebbe indebolire il principio di uguaglianza se non è ben bilanciata da regole comuni.
A livello internazionale, questa tensione non è esclusiva dell’Italia. Paesi come la Spagna o la Germania, fortemente regionalizzati, hanno dovuto affrontare problemi simili: garantire libertà gestionale e identità locali senza compromettere la coerenza complessiva del sistema educativo. L’esperienza comparata mostra che il successo dell’autonomia scolastica dipende dalla capacità di mantenere saldi standard nazionali e strumenti di monitoraggio condivisi.
Gli organi collegiali e il ruolo nella governance scolastica
Origini e funzioni principali
Gli organi collegiali della scuola nascono negli anni Settanta come strumenti di partecipazione democratica e di condivisione delle decisioni all’interno delle istituzioni scolastiche. La loro disciplina è stata sistematizzata nel Testo Unico 297/1994, che ancora oggi rappresenta il riferimento normativo principale.
Gli organi collegiali riconosciuti dalla legge sono:
- Consiglio di istituto, con funzioni di indirizzo e di gestione economica e organizzativa;
- Collegio dei docenti, centro della progettazione didattica e pedagogica;
- Consigli di classe, interclasse e intersezione, deputati al raccordo educativo e al monitoraggio del percorso degli studenti;
- Giunta esecutiva, con compiti preparatori e di gestione amministrativa;
- Comitato di valutazione, che interviene nella valorizzazione e nella verifica del servizio dei docenti.
Questi organismi hanno mantenuto un ruolo centrale anche dopo l’introduzione dell’autonomia scolastica, perché garantiscono la dimensione collegiale delle decisioni e impediscono che la scuola sia governata esclusivamente da figure individuali.
Partecipazione e corresponsabilità
La logica degli organi collegiali è quella della corresponsabilità educativa. La presenza di docenti, genitori, studenti (nelle scuole secondarie) e personale ATA negli organi decisionali riflette l’idea che la scuola sia una comunità e non soltanto un luogo di erogazione di servizi. In questo senso, gli organi collegiali rappresentano la sede in cui si incontrano punti di vista diversi: quello professionale dei docenti, quello esperienziale delle famiglie, quello diretto degli studenti.
Attraverso il funzionamento degli organi collegiali, l’autonomia scolastica assume un carattere partecipativo e condiviso, evitando il rischio di trasformarsi in un’autonomia “dirigenziale” concentrata nelle mani del solo dirigente scolastico.
L’evoluzione con l’autonomia scolastica
Con l’avvento della legge 59/1997 e del DPR 275/1999, gli organi collegiali non hanno perso importanza, ma hanno visto ridefinito il proprio ruolo. Il Collegio dei docenti, ad esempio, è divenuto l’organo centrale nella predisposizione del Piano dell’Offerta Formativa (oggi PTOF), mentre il Consiglio di istituto ha assunto la funzione di adottarlo formalmente, garantendo il coinvolgimento di tutte le componenti della comunità scolastica.
In altre parole, il passaggio all’autonomia ha rafforzato la dimensione progettuale e strategica degli organi collegiali, spostando il baricentro da un approccio burocratico a uno più partecipativo e orientato agli obiettivi educativi.
Criticità e prospettive
Non mancano, tuttavia, alcune criticità. In molti casi, la partecipazione effettiva delle famiglie e degli studenti è rimasta limitata, con una scarsa affluenza alle elezioni scolastiche e un ruolo percepito come marginale rispetto alle decisioni più significative. Inoltre, il crescente peso delle responsabilità dirigenziali ha sollevato interrogativi sul reale equilibrio tra potere del dirigente e funzione degli organi collegiali.
Negli ultimi anni, si è discusso se fosse necessario riformare o rafforzare gli organi collegiali, rendendoli più incisivi e capaci di rispondere alle sfide dell’autonomia, anche alla luce delle trasformazioni portate dal digitale, dalla collaborazione con enti esterni e dall’internazionalizzazione della scuola. In prospettiva, una governance scolastica efficace sembra dover coniugare il ruolo del dirigente con quello di organi collegiali rinnovati, che possano davvero esprimere la pluralità della comunità scolastica.
I limiti dell’autonomia scolastica: livelli essenziali, obiettivi nazionali e valore legale dei titoli
Uniformità e garanzie comuni
L’autonomia scolastica, pur rappresentando una grande conquista per le istituzioni educative, non è illimitata. Fin dall’articolo 21 della legge 59/1997 e successivamente con il DPR 275/1999, è stato chiarito che le scuole devono operare entro confini precisi, dettati dall’esigenza di garantire uguaglianza, equità e qualità uniforme del servizio di istruzione su tutto il territorio nazionale.
Il concetto chiave è quello dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), che lo Stato deve assicurare in maniera omogenea per tutelare i diritti fondamentali dei cittadini. Applicato alla scuola, questo significa che, pur nella diversità dei Piani dell’Offerta Formativa, ogni studente deve poter conseguire competenze di base equivalenti e ricevere un titolo di studio con lo stesso valore legale, indipendentemente dal luogo in cui frequenta la scuola.
Il ruolo dello Stato
Per preservare questa omogeneità, lo Stato mantiene la competenza a definire gli obiettivi generali e specifici del sistema di istruzione. Questi sono tradotti in:
- Indicazioni nazionali per il curricolo (per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo);
- Linee guida per gli istituti tecnici e professionali;
- Indicazioni nazionali per i licei.
Tali documenti stabiliscono le competenze attese e i traguardi di apprendimento che tutte le scuole devono rispettare. In questo modo, l’autonomia non diventa arbitrio: le istituzioni scolastiche possono modulare i percorsi, ma sempre entro un quadro comune di riferimenti nazionali.
Il valore legale dei titoli di studio
Un altro limite fondamentale dell’autonomia è legato al valore legale dei titoli di studio. Il diploma di scuola secondaria superiore o la licenza di primo ciclo hanno validità nazionale, e ciò impone che i percorsi formativi, pur diversificati, rispettino criteri uniformi. Senza questa garanzia, il titolo conseguito a Torino non avrebbe lo stesso peso di quello ottenuto a Bari, minando la credibilità del sistema scolastico e il principio costituzionale di uguaglianza.
La necessità di tutelare il valore legale dei titoli spiega, ad esempio, perché l’orario obbligatorio delle discipline e la distribuzione del monte ore siano definiti centralmente dal Ministero, con margini limitati di flessibilità per le scuole.
Autonomia non significa indipendenza
Un equivoco diffuso è confondere l’autonomia con l’indipendenza. In realtà, le scuole non possono definire da sole gli obiettivi educativi né scegliere in modo arbitrario contenuti e modalità di valutazione. Devono collocarsi all’interno di un sistema che resta unitario. Per questo, il Ministero dell’Istruzione e del Merito stabilisce standard nazionali in termini di curricoli, valutazione e certificazione delle competenze, come ribadito dal recente DM 14/2024, che ha introdotto i modelli nazionali di certificazione delle competenze.
L’autonomia va quindi letta come libertà entro regole condivise: le scuole hanno la possibilità di innovare, sperimentare e adattarsi al contesto locale, ma senza mai derogare ai principi fondamentali del sistema nazionale di istruzione.
Un equilibrio tra flessibilità e unità
In definitiva, i limiti dell’autonomia scolastica sono la condizione stessa della sua legittimità. Senza standard comuni, non sarebbe possibile garantire pari opportunità a tutti gli studenti né riconoscere i titoli in maniera uniforme sul piano nazionale ed europeo. La sfida per il futuro consiste nel mantenere saldo questo equilibrio: da un lato valorizzare la capacità delle scuole di innovare, dall’altro assicurare la coerenza di un sistema educativo che deve restare unitario.
Gli strumenti dell’autonomia scolastica: PTOF, organico dell’autonomia e flessibilità curricolare
Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF)
Il principale strumento attraverso cui le scuole esercitano la propria autonomia è il Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF). Introdotto dalla legge 107/2015 e in continuità con il precedente Piano dell’Offerta Formativa (POF), il PTOF rappresenta la “carta d’identità” di ciascuna istituzione scolastica. In esso confluiscono le scelte educative, organizzative e progettuali che caratterizzano la scuola, elaborate in funzione delle esigenze del territorio e della comunità scolastica.
La redazione del PTOF segue un iter preciso:
- il dirigente scolastico emana un atto di indirizzo, fissando priorità strategiche;
- il collegio dei docenti elabora il piano, traducendo le linee generali in progetti didattici;
- il consiglio di istituto adotta formalmente il documento, garantendo il coinvolgimento di tutte le componenti (docenti, famiglie, studenti, personale ATA).
In questo modo, il PTOF diventa un prodotto collegiale e partecipato, che riflette l’identità della scuola e costituisce lo strumento concreto di attuazione dell’autonomia.
L’organico dell’autonomia
Un altro pilastro introdotto dalla legge 107/2015 è l’organico dell’autonomia, composto da due parti:
- organico di diritto, cioè i docenti strettamente necessari per coprire le discipline curricolari in base al numero di classi;
- organico di potenziamento, un contingente aggiuntivo destinato a rafforzare aree specifiche, ampliare l’offerta formativa e sostenere progetti innovativi.
La fusione di questi due segmenti ha reso possibile una maggiore flessibilità nella gestione del personale, permettendo alle scuole di rispondere meglio alle proprie priorità. L’organico di potenziamento, ad esempio, ha consentito di attivare laboratori, corsi di recupero, progetti interdisciplinari e iniziative extracurricolari in linea con il PTOF.
Flessibilità curricolare
Il DPR 275/1999 ha riconosciuto alle scuole margini di flessibilità nella progettazione dei percorsi formativi. Tra le possibilità previste vi sono:
- articolazione modulare del monte ore annuale delle discipline;
- unità di insegnamento non coincidenti con l’ora canonica di 60 minuti (in molti istituti tecnici e professionali, ad esempio, le lezioni sono di 50 minuti);
- aggregazione di discipline in aree o ambiti disciplinari;
- formazione di gruppi di alunni provenienti da classi o anni diversi, per progetti specifici o percorsi individualizzati.
Queste possibilità, se correttamente utilizzate, consentono alle scuole di personalizzare i percorsi senza uscire dai vincoli nazionali, valorizzando il principio di inclusione e l’attenzione ai bisogni educativi speciali.
Innovazione e responsabilità
Gli strumenti dell’autonomia non si esauriscono in norme e organici: la loro efficacia dipende dalla capacità delle scuole di interpretarli come leve di innovazione. Un PTOF ben strutturato, un uso consapevole dell’organico di potenziamento e una flessibilità curricolare orientata agli studenti possono trasformare l’autonomia in un motore di qualità educativa.
Al tempo stesso, però, questi strumenti richiedono responsabilità e trasparenza. Non a caso, la normativa prevede che il PTOF sia pubblicato online e aggiornato periodicamente, in modo da garantire chiarezza e rendicontazione sociale nei confronti delle famiglie e del territorio.
Le competenze di Stato, Regioni ed Enti locali in materia di istruzione
Il quadro costituzionale
La ripartizione delle competenze in ambito scolastico ha subito una trasformazione significativa con la legge costituzionale 3/2001, che ha modificato il Titolo V della Parte II della Costituzione. Da quel momento, il sistema si è assestato su tre livelli principali:
- lo Stato, che definisce i principi generali e i livelli essenziali delle prestazioni;
- le Regioni, titolari di competenze concorrenti e, in alcuni casi, esclusive;
- gli Enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane), responsabili soprattutto dei servizi di supporto e della gestione delle strutture scolastiche.
Gli articoli 117 e 118 della Costituzione sono i punti di riferimento: il primo regola le competenze legislative, il secondo disciplina la distribuzione delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione.
Il ruolo dello Stato
Lo Stato mantiene competenze fondamentali, tra cui:
- definizione delle norme generali sull’istruzione;
- determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) in materia di diritti civili e sociali, inclusi istruzione e diritto allo studio;
- fissazione degli obiettivi generali del sistema educativo, tramite indicazioni nazionali, linee guida e curricoli;
- definizione dell’orario minimo obbligatorio delle discipline;
- regolamentazione delle procedure di valutazione e certificazione delle competenze.
Questi compiti sono essenziali per garantire la coerenza del sistema e il valore legale dei titoli di studio.
Le competenze delle Regioni
Le Regioni hanno potere legislativo concorrente in materia di istruzione, con esclusione delle norme generali e dei LEP, che restano di competenza statale. In particolare, spettano alle Regioni:
- la disciplina dell’istruzione e formazione professionale (IeFP);
- la programmazione dell’offerta formativa sul territorio;
- la gestione di interventi per il diritto allo studio, in collaborazione con gli enti locali.
Alcune Regioni a statuto speciale godono di una competenza ancora più ampia, potendo intervenire in modo diretto anche sulla regolamentazione di segmenti del sistema scolastico.
Il ruolo degli Enti locali
Comuni e Province (oggi in parte sostituite dalle Città metropolitane) hanno un ruolo prevalentemente amministrativo e gestionale. Tra i loro compiti rientrano:
- manutenzione e gestione degli edifici scolastici (Comuni per il primo ciclo, Province/Città metropolitane per il secondo ciclo);
- organizzazione dei servizi di trasporto e mensa;
- fornitura di assistenza specialistica e servizi di supporto per studenti con disabilità;
- interventi per l’ampliamento dell’offerta formativa, in raccordo con le scuole e le Regioni.
In questo modo, gli enti locali contribuiscono a rendere effettivo il diritto allo studio, garantendo condizioni materiali e logistiche che favoriscono la frequenza scolastica.
Un sistema di competenze intrecciate
La complessità del sistema italiano sta proprio nella natura intrecciata e interdipendente di queste competenze. Ad esempio, la realizzazione di un progetto di inclusione per studenti con disabilità può coinvolgere contemporaneamente:
- lo Stato (norme generali e riconoscimento del diritto allo studio);
- la Regione (programmazione degli interventi formativi);
- il Comune o la Provincia (servizi di trasporto, assistenza specialistica, strutture).
Questa distribuzione multilivello, se da un lato valorizza la vicinanza al cittadino, dall’altro richiede un costante coordinamento per evitare sovrapposizioni e garantire efficienza.
Sviluppi recenti e prospettive future dell’autonomia scolastica
La legge 107/2015: la “Buona Scuola”
Un passaggio fondamentale nell’evoluzione dell’autonomia scolastica è rappresentato dalla legge 107 del 2015, nota come Buona Scuola. Essa ha rafforzato l’impianto introdotto dalla riforma Bassanini e dal DPR 275/1999, intervenendo su due fronti principali:
- l’introduzione dell’organico dell’autonomia, che ha unificato l’organico di diritto e quello di potenziamento, offrendo alle scuole margini più ampi nella gestione del personale;
- il potenziamento del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), che diventa il fulcro della programmazione scolastica, in cui confluiscono obiettivi educativi, strategie metodologiche e progetti innovativi.
La legge 107 ha inoltre incentivato la formazione in servizio dei docenti, la digitalizzazione delle scuole e l’apertura al territorio, promuovendo un modello di istituto scolastico come centro di innovazione educativa.
L’impatto del PNRR e le riforme recenti
Negli ultimi anni, l’autonomia delle scuole si è intrecciata con le politiche europee, in particolare attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Gli interventi previsti hanno inciso soprattutto sugli istituti tecnici e professionali, con l’obiettivo di rafforzare la cosiddetta “filiera tecnico-professionale” e promuovere un migliore raccordo tra scuola, università e mondo del lavoro.
In questo contesto si collocano anche sperimentazioni come i percorsi quadriennali negli istituti tecnici e i rapporti più stretti con gli ITS Academy. L’autonomia scolastica è chiamata a misurarsi con queste sfide, diventando lo strumento che consente alle scuole di integrare le linee guida nazionali con le peculiarità del proprio territorio e del tessuto produttivo locale.
Il liceo del Made in Italy e le nuove sperimentazioni
Tra le novità più recenti, vi è l’istituzione del Liceo del Made in Italy (legge 206/2023), che si propone di valorizzare le eccellenze produttive e culturali del Paese. Anche in questo caso, la capacità delle scuole di esercitare la propria autonomia risulterà decisiva: l’attivazione di percorsi specifici richiede infatti un forte legame con le realtà economiche e sociali del territorio.
Si tratta di un esempio di come l’autonomia non sia un concetto statico, ma un processo in evoluzione, che si adatta alle trasformazioni della società e alle priorità politiche ed economiche.
La certificazione delle competenze e il quadro europeo
Un altro sviluppo recente riguarda la crescente attenzione verso la certificazione delle competenze, culminata con il DM 14/2024, che ha introdotto modelli nazionali per la scuola primaria, il primo ciclo e l’obbligo di istruzione. Questo approccio si inserisce in una prospettiva europea: l’European Qualification Framework (EQF) stabilisce infatti un linguaggio comune per descrivere le competenze, favorendo la mobilità degli studenti e il riconoscimento reciproco dei titoli.
In quest’ottica, l’autonomia scolastica deve sempre più confrontarsi con standard internazionali, garantendo che le scuole italiane siano in grado di preparare studenti competitivi e riconosciuti non solo a livello nazionale, ma anche europeo.
Prospettive future
Le prospettive dell’autonomia scolastica ruotano attorno a tre assi principali:
- rafforzamento della personalizzazione: maggiore attenzione ai bisogni educativi speciali e alle strategie inclusive;
- digitalizzazione e innovazione didattica: utilizzo di nuove tecnologie e metodologie interattive;
- territorializzazione responsabile: scuole sempre più radicate nei contesti locali, ma al tempo stesso capaci di rispettare standard comuni e di proiettarsi in una dimensione europea.
La sfida sarà mantenere in equilibrio libertà e uniformità, innovazione e tradizione, esigenze locali e coerenza nazionale. Solo in questo modo l’autonomia scolastica potrà consolidarsi come uno degli strumenti più efficaci per migliorare la qualità del sistema educativo italiano.
Box pratico di riepilogo sull’autonomia scolastica
✅ Punti chiave
- L’autonomia scolastica nasce con la legge 59/1997 (riforma Bassanini) e viene regolata dal DPR 275/1999.
- Ha natura funzionale, non politica: riguarda il “come” organizzare la didattica, non il “perché” o i fini del sistema educativo.
- Gli organi collegiali (collegio docenti, consigli di classe/interclasse/intersezione, consiglio di istituto, giunta esecutiva, comitato di valutazione) restano pilastri della governance.
- I limiti principali sono: obiettivi generali fissati dallo Stato, livelli essenziali delle prestazioni, valore legale dei titoli di studio.
- Strumenti operativi: PTOF, organico dell’autonomia, flessibilità curricolare.
- Competenze distribuite tra: Stato (norme generali e LEP), Regioni (istruzione professionale, programmazione), Enti locali (strutture e servizi di supporto).
- Sviluppi recenti: legge 107/2015, PNRR, liceo del Made in Italy (2023), certificazione delle competenze (DM 14/2024).
- Dimensione europea: riferimento all’EQF per il riconoscimento delle competenze e la mobilità internazionale.
❌ Errori comuni
- Confondere autonomia con indipendenza: le scuole non possono definire fini e standard da sole.
- Considerare l’autonomia come sinonimo di decentramento: non è solo trasferimento di funzioni, ma responsabilizzazione delle istituzioni scolastiche.
- Ridurre il PTOF a un mero adempimento burocratico, senza sfruttarlo come strumento identitario e di innovazione.
- Trascurare il ruolo degli organi collegiali, che garantiscono partecipazione e legittimazione delle decisioni.
- Ignorare i limiti nazionali (orario obbligatorio, curricoli, certificazione competenze) pensando che l’autonomia permetta libertà totale.
📝 Checklist operativa per le scuole
- Il PTOF riflette realmente i bisogni del territorio e dell’utenza?
- L’organico di potenziamento è usato per progetti coerenti con le priorità educative?
- Sono rispettati i vincoli nazionali su curricoli e monte ore?
- Gli organi collegiali sono stati coinvolti attivamente nella progettazione?
- La scuola comunica in modo trasparente il PTOF e i risultati raggiunti (rendicontazione sociale)?
- Sono state considerate le opportunità offerte da PNRR, reti di scuole e partenariati territoriali?
💡 Suggerimenti operativi
- Utilizzare il PTOF come strumento di dialogo con famiglie e territorio, non solo come documento interno.
- Sfruttare l’organico dell’autonomia per introdurre laboratori interdisciplinari, potenziamento linguistico o STEM, attività di inclusione.
- Promuovere progetti di continuità tra cicli scolastici e collaborazioni con università, enti locali e imprese.
- Integrare le indicazioni nazionali con percorsi personalizzati, senza derogare ai LEP.
- Valorizzare la dimensione europea, utilizzando l’EQF e i programmi di mobilità (Erasmus+, eTwinning).
Fonti e letture consigliate
- Costituzione della Repubblica Italiana, artt. 33, 34, 117 e 118 (Titolo V).
- Decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione).
- Legge 15 marzo 1997, n. 59 (Riforma Bassanini), art. 21.
- DPR 8 marzo 1999, n. 275 (Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche).
- Legge 13 luglio 2015, n. 107 (La Buona Scuola).
- Ministero dell’Istruzione e del Merito, Indicazioni nazionali e Linee guida (scuola dell’infanzia, primo ciclo, secondaria di secondo grado).
- Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea, 22 maggio 2018, sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente.
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