Definizione e prospettiva generale
La disabilità intellettiva è una condizione che si manifesta con significative limitazioni nel funzionamento cognitivo e nel comportamento adattivo. Non si tratta semplicemente di un deficit delle capacità intellettive, ma di un insieme complesso di caratteristiche che coinvolgono le abilità necessarie per affrontare la vita quotidiana, le relazioni sociali e le richieste dell’ambiente.
La definizione moderna non si concentra solo su ciò che una persona “non sa fare”, ma pone attenzione anche sui suoi punti di forza e sulle potenzialità di sviluppo. Questo approccio è fondamentale per impostare percorsi educativi e di sostegno che valorizzino l’individuo nella sua globalità.
Le tre funzioni fondamentali della valutazione
Il processo di valutazione della disabilità intellettiva non è riducibile a un singolo test o a una diagnosi clinica, ma si articola in tre funzioni principali, considerate come tappe successive e interconnesse:
Diagnosi
Consiste nell’accertare la presenza di limitazioni nel funzionamento intellettivo e nel comportamento adattivo, con esordio entro i 18 anni. Per la diagnosi si ricorre a test standardizzati (come quelli sul quoziente intellettivo) e a scale specifiche per il comportamento adattivo, affiancati dalla documentazione clinica disponibile.
Classificazione
Riguarda la descrizione delle capacità residue e delle aree di difficoltà dell’individuo. Non si limita quindi a un’etichetta diagnostica, ma fornisce un quadro articolato che aiuta a comprendere quali sostegni possano essere più adeguati per favorire l’inclusione e l’autonomia.
Programmazione dei sostegni
È la fase operativa, in cui si progettano interventi personalizzati per promuovere indipendenza, integrazione sociale, benessere e qualità della vita. Questa programmazione comprende obiettivi educativi, strategie di supporto e strumenti di autovalutazione che tengono conto delle condizioni oggettive di vita della persona.
Un approccio integrato e multidimensionale
L’attenzione non è quindi rivolta esclusivamente al deficit, ma a una visione globale della persona, che considera il suo ruolo nei diversi contesti di vita: scuola, famiglia, comunità, ambiente lavorativo e sociale. È in questa prospettiva che modelli e strumenti come ICD, DSM-5 e soprattutto ICF trovano la loro applicazione, fornendo linguaggi condivisi e criteri operativi utili a costruire percorsi inclusivi.
Modelli e classificazioni della disabilità intellettiva
ICD e DSM-5: i sistemi diagnostici internazionali
Per comprendere e descrivere la disabilità intellettiva sono stati elaborati diversi sistemi di classificazione. Tra i più diffusi vi sono:
ICD (International Classification of Diseases): sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è giunto oggi all’undicesima revisione. L’ICD fornisce un linguaggio standardizzato per definire patologie e condizioni di salute, tra cui la disabilità intellettiva, permettendo uniformità a livello internazionale.
DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali): redatto dall’American Psychiatric Association, definisce la disabilità intellettiva come una condizione caratterizzata da deficit delle funzioni intellettive e adattive, con esordio nell’età evolutiva. Il DSM-5 mette in risalto non solo il livello di QI, ma anche la capacità della persona di adattarsi al proprio ambiente.
Entrambi i sistemi condividono criteri simili, in particolare riguardo all’età di insorgenza (entro i 18 anni), al livello di funzionamento cognitivo e alle competenze adattive.
AMR: il contributo dell’Associazione Americana sul Ritardo Mentale
Un ulteriore riferimento importante proviene dall’AMR (American Association on Mental Retardation, oggi AAMR). Questo modello, oltre agli aspetti diagnostici, sottolinea la necessità di analizzare i punti di forza e le aree di limitazione della persona, al fine di pianificare programmi educativi e riabilitativi personalizzati.
L’attenzione è quindi rivolta non solo al deficit, ma anche alla progettazione di interventi di sostegno che favoriscano la qualità della vita e l’inclusione sociale.
Accanto a questi strumenti, un ruolo sempre più centrale è rivestito dall’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), elaborato dall’OMS nel 2001.
A differenza delle classificazioni tradizionali, l’ICF non si concentra sulle conseguenze della malattia, ma sulle componenti della salute e del funzionamento umano. Si tratta di un modello biopsicosociale, che prende in esame l’individuo a 360 gradi:
- dimensione fisiologica: funzioni e strutture corporee
- dimensione psicologica: processi cognitivi ed emotivi
- dimensione sociale: partecipazione alla vita comunitaria
L’ICF descrive non solo ciò che la persona non riesce a fare, ma soprattutto ciò che può realizzare all’interno dei diversi contesti di vita. Proprio per questo risulta uno strumento prezioso in ambito scolastico e educativo, dove l’obiettivo è valorizzare le potenzialità e costruire percorsi inclusivi.
Le tre funzioni della valutazione della disabilità intellettiva
Diagnosi
La diagnosi è il primo passo per comprendere la disabilità intellettiva. Essa si basa su tre criteri fondamentali:
- limitazioni nel funzionamento intellettivo, accertate attraverso test standardizzati come il quoziente intellettivo (QI), che indicano prestazioni significativamente al di sotto della media;
- limitazioni nel comportamento adattivo, cioè difficoltà nell’acquisire e applicare competenze pratiche, sociali e concettuali necessarie per la vita quotidiana;
- età di insorgenza, che deve collocarsi entro i 18 anni.
Questi criteri non vanno interpretati in maniera rigida: un punteggio di QI, ad esempio, non è sufficiente da solo per stabilire la presenza di disabilità intellettiva, se non accompagnato da una valutazione accurata del funzionamento adattivo.
Classificazione
La classificazione non si limita a “etichettare” un disturbo, ma fornisce una descrizione dettagliata dei punti di forza e delle aree di limitazione dell’individuo. Questo processo è fondamentale per individuare i sostegni più adeguati.
Gli ambiti considerati riguardano:
- lo sviluppo personale e relazionale;
- l’ambiente familiare e comunitario;
- il contesto scolastico e lavorativo;
- la salute e la sicurezza;
- i comportamenti osservabili.
Questa fase permette di passare da una visione statica della disabilità a una lettura dinamica, utile per la progettazione educativa.
Programmazione dei sostegni
La programmazione costituisce la dimensione più operativa. L’obiettivo non è soltanto ridurre i limiti, ma promuovere indipendenza, partecipazione e benessere.
Tra i principali strumenti rientrano:
- piani educativi individualizzati (PEI) che definiscono obiettivi personalizzati;
- strategie di inclusione scolastica e sociale;
- strumenti di autovalutazione e monitoraggio;
- percorsi mirati al potenziamento delle abilità residue.
In questa prospettiva, la valutazione assume un carattere multidimensionale: non riguarda solo il funzionamento cognitivo, ma integra aspetti clinici, educativi, sociali e ambientali.
Il ruolo del PEI e degli strumenti clinici
Il PEI come strumento di personalizzazione
Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) rappresenta il principale strumento di progettazione in ambito scolastico per gli alunni con disabilità. Esso nasce dall’integrazione tra la diagnosi clinica e le osservazioni pedagogiche, con l’obiettivo di costruire un percorso formativo realmente personalizzato.
Il PEI non è un documento statico, ma un progetto dinamico che deve essere aggiornato e rimodellato sulla base dei progressi, dei cambiamenti e delle nuove necessità emerse nel tempo. La sua funzione è quella di tradurre la valutazione clinica in azioni educative concrete, calibrate sulle potenzialità e sui bisogni specifici dell’alunno.
Gli strumenti diagnostici a supporto del PEI
Per la redazione del PEI vengono utilizzati diversi strumenti di classificazione, tra cui:
- ICD, che fornisce la codifica medica della condizione;
- DSM-5, utile per individuare i criteri clinici in ambito psichiatrico e psicologico;
- ICF, che offre una prospettiva più ampia, considerando la persona nella sua totalità e nel rapporto con l’ambiente.
Questi strumenti non sono mutuamente esclusivi: possono coesistere e fornire informazioni complementari. Negli ultimi anni, tuttavia, l’ICF è quello più valorizzato in ambito scolastico, perché consente di cogliere sia le limitazioni sia le possibilità di crescita e inclusione.
Dalla diagnosi clinica all’osservazione educativa
Gli insegnanti di sostegno non hanno il compito di formulare diagnosi cliniche, che spettano a medici e specialisti. Tuttavia, il loro ruolo è cruciale nell’osservazione quotidiana e nella raccolta di informazioni che permettono di adattare il PEI alle esigenze reali dello studente.
In questo senso, la collaborazione con la famiglia e con i professionisti che seguono il bambino è essenziale: più ricca è la rete di informazioni, più efficace sarà la programmazione educativa.
Un approccio integrato
Il PEI diventa quindi il punto di incontro tra due prospettive:
- quella clinica, basata su codici e classificazioni ufficiali,
- quella educativa, centrata sull’osservazione e sull’esperienza diretta in classe.
L’integrazione di queste due dimensioni permette di costruire percorsi inclusivi e realistici, che non si limitano a compensare le difficoltà, ma mirano a valorizzare i punti di forza e a favorire l’autonomia.
ICD e ICF: differenze e utilizzo pratico
Due strumenti con finalità diverse
Sia l’ICD (International Classification of Diseases) che l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) sono strumenti elaborati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma rispondono a logiche differenti:
- ICD: è una classificazione medica, nata per descrivere e codificare le malattie e i disturbi. La sua funzione principale è fornire un linguaggio comune a livello sanitario, utile per diagnosi, statistiche epidemiologiche e gestione dei servizi di cura.
- ICF: si concentra invece sul funzionamento e sulla partecipazione della persona nei diversi contesti di vita. Non descrive la malattia, ma gli effetti che questa produce sul piano corporeo, psicologico e sociale.
In sintesi, l’ICD risponde alla domanda “che cos’ha questa persona?”, mentre l’ICF risponde alla domanda “cosa può fare questa persona e in quali contesti?”.
L’uso pratico nella scuola
Nell’ambito scolastico, l’ICD fornisce un riferimento diagnostico importante, ma spesso insufficiente per guidare la programmazione educativa. Conoscere il nome o il codice di una condizione medica non basta per capire quali strategie siano più adatte a supportare l’apprendimento e la partecipazione dell’alunno.
L’ICF, invece, si rivela più utile perché:
- evidenzia le abilità residue e non solo i limiti;
- mette in relazione la persona con il suo ambiente di vita;
- consente di individuare i fattori contestuali che favoriscono o ostacolano lo sviluppo;
- fornisce indicazioni concrete per la costruzione del PEI.
Complementarità tra ICD e ICF
Non si tratta di scegliere quale sia “migliore”, ma di comprendere che i due strumenti sono complementari. L’ICD è fondamentale per la parte clinico-medica, mentre l’ICF arricchisce la visione pedagogica e inclusiva.
In molti casi, gli insegnanti trovano nell’ICF informazioni più operative, capaci di orientare le scelte educative quotidiane. Tuttavia, entrambe le classificazioni mantengono la loro utilità e devono essere lette in stretta connessione con l’osservazione diretta e con la collaborazione tra scuola, famiglia e specialisti.
L’ICF: struttura, fattori contestuali e applicazioni scolastiche
L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), elaborato dall’OMS nel 2001, rappresenta un punto di svolta nell’approccio alla disabilità. A differenza delle classificazioni puramente cliniche, l’ICF adotta un modello biopsicosociale: considera la persona nella sua interezza, integrando aspetti biologici, psicologici e sociali.
Questo significa che la disabilità non viene letta soltanto come conseguenza di una patologia, ma come il risultato dell’interazione tra le caratteristiche individuali e l’ambiente in cui la persona vive.
Struttura dell’ICF
L’ICF è suddiviso in due parti principali:
Funzionamento e disabilità
- Funzioni e strutture corporee (es. funzioni cognitive, sensoriali, motorie).
- Attività e partecipazione (es. capacità di apprendere, comunicare, interagire socialmente, prendersi cura di sé).
Fattori contestuali
- Fattori ambientali, come il supporto familiare, le barriere architettoniche, le condizioni socio-economiche e culturali.
- Fattori personali, legati all’esperienza soggettiva, alla motivazione, alla resilienza e ad altre caratteristiche individuali.
Questa articolazione rende l’ICF uno strumento molto dettagliato, capace di restituire una fotografia dinamica della persona e del suo rapporto con il contesto.
Fattori contestuali: esempi pratici
I fattori contestuali hanno un ruolo cruciale nella valutazione. Alcuni esempi:
- Un alunno con deficit motorio può avere difficoltà maggiori in una scuola non accessibile, mentre in un ambiente privo di barriere architettoniche può svolgere le stesse attività dei compagni.
- Un bambino con difficoltà di linguaggio può beneficiare di una famiglia che lo stimola con letture e conversazioni quotidiane, oppure incontrare ostacoli in un contesto povero di stimoli comunicativi.
Questi esempi mostrano come la disabilità non dipenda solo dalle condizioni intrinseche della persona, ma anche dal modo in cui l’ambiente risponde ai suoi bisogni.
Applicazioni scolastiche
In ambito educativo, l’ICF risulta particolarmente utile perché:
- aiuta a descrivere con precisione il profilo di funzionamento dell’alunno;
- consente di individuare le aree su cui intervenire, valorizzando i punti di forza;
- favorisce una progettazione didattica realmente inclusiva, orientata non solo a compensare i limiti, ma a potenziare le capacità residue;
- offre un linguaggio comune per il dialogo tra scuola, famiglia e servizi sanitari.
Un approccio dinamico e personalizzato
L’ICF non è uno strumento da imparare a memoria, ma una guida pratica che permette di leggere i codici e collegarli agli aspetti concreti della vita quotidiana. La sua forza sta nel mostrare la persona “a 360 gradi”, evidenziando non solo le difficoltà, ma anche le risorse e le potenzialità su cui costruire percorsi educativi e di vita.
Le cause della disabilità intellettiva
Una condizione multifattoriale
La disabilità intellettiva non ha un’unica origine: può derivare da una combinazione di fattori genetici, biologici, ambientali e sociali. Comprenderne le cause non significa ridurre la persona alla sua diagnosi, ma permette di acquisire una visione più completa del percorso che ha portato a quella condizione.
In generale, si distinguono tre grandi categorie: cause genetiche o biologiche, cause prenatali, perinatali e postnatali, e cause ambientali o psicosociali. Spesso queste si intrecciano, rendendo la diagnosi e la valutazione ancora più complesse.
Cause genetiche e biologiche
Alcune forme di disabilità intellettiva derivano da alterazioni genetiche o cromosomiche.
- Sindrome di Down: causata da un’anomalia cromosomica (trisomia 21), può comportare una disabilità intellettiva da moderata a grave.
- Altre anomalie cromosomiche: alterazioni numeriche o strutturali dei cromosomi possono determinare vari gradi di compromissione cognitiva.
Questi fattori, pur non sempre ereditari, hanno un impatto diretto sullo sviluppo neurologico e sulle capacità intellettive.
Cause prenatali, perinatali e postnatali
La disabilità intellettiva può avere origine anche in momenti diversi rispetto alla nascita:
- Prenatali: infezioni durante la gravidanza (come la rosolia), esposizione a sostanze tossiche, problemi nello sviluppo embrionale o fetale.
- Perinatali: complicazioni al momento del parto, come sofferenza fetale, prematurità o insufficienza della placenta.
- Postnatali: malattie come meningite o encefalite, traumi cranici, incidenti, oppure condizioni che compromettono lo sviluppo neurologico nei primi anni di vita.
Questi eventi, soprattutto se si verificano in età precoce, possono interferire con lo sviluppo intellettivo e adattivo.
Oltre agli aspetti biologici, anche l’ambiente in cui un bambino cresce gioca un ruolo cruciale. Fattori come:
- un contesto familiare povero di stimoli,
- condizioni socio-economiche precarie,
- carenze affettive, trascuratezza o abusi,
- scarsa stimolazione linguistica e culturale,
possono influenzare negativamente lo sviluppo cognitivo. Gli studi più recenti hanno dimostrato che la qualità dell’ambiente educativo e relazionale è determinante per il livello di adattamento e le opportunità di crescita del bambino.
L’interazione tra cause
Nella maggior parte dei casi non è presente un solo fattore causale. Le disabilità più gravi, ad esempio, sono spesso legate alla combinazione di condizioni genetiche e ambientali.
Inoltre, l’esordio varia a seconda della gravità:
- le forme più severe vengono generalmente identificate entro i primi sei anni di vita,
- quelle lievi o moderate possono emergere più tardi, soprattutto con l’ingresso a scuola, quando le richieste cognitive diventano più complesse.
Incidenza e differenze di genere
Le ricerche hanno rilevato che la disabilità intellettiva è diagnosticata più frequentemente nei maschi rispetto alle femmine. L’incidenza maggiore si registra in età scolare (tra i 10 e i 14 anni), fase in cui le richieste di adattamento scolastico mettono in evidenza eventuali difficoltà cognitive. In età adulta, invece, le diagnosi tendono a diminuire, poiché la pressione esercitata dagli ambienti formativi si riduce e subentrano altri fattori socio-ambientali.

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Criteri diagnostici della disabilità intellettiva
Il ruolo del quoziente intellettivo (QI)
Uno dei criteri più utilizzati nella diagnosi è il quoziente intellettivo (QI). In generale, un punteggio inferiore a 70 viene considerato indicativo di un funzionamento cognitivo significativamente al di sotto della media. Tuttavia, il QI non deve essere interpretato come unico indicatore: valori compresi tra 70 e 75, ad esempio, non escludono la presenza di difficoltà importanti in altri ambiti.
Il QI, infatti, fornisce solo una misura parziale delle capacità cognitive e non restituisce un quadro completo della persona.
Funzionamento adattivo
Il funzionamento adattivo si riferisce alla capacità dell’individuo di adattarsi agli standard richiesti dall’età e dall’ambiente in cui vive. Comprende abilità concettuali (comunicazione, lettura, scrittura, uso del denaro), sociali (relazioni interpersonali, responsabilità, rispetto delle regole) e pratiche (cura di sé, gestione della vita quotidiana).
Un individuo può avere un QI vicino alla norma, ma presentare deficit significativi nelle competenze adattive, che incidono in maniera determinante sulla diagnosi di disabilità intellettiva.
Età di insorgenza
Un criterio essenziale è che i segni della disabilità si manifestino entro i 18 anni. Questa condizione permette di distinguere la disabilità intellettiva da deterioramenti cognitivi acquisiti in età adulta, come quelli legati a traumi o malattie neurodegenerative.
L’età di esordio consente di contestualizzare la diagnosi all’interno del percorso evolutivo del bambino o dell’adolescente.
Oltre alle dimensioni cognitive e adattive, vanno considerate anche le problematiche affettive e sociali. Disturbi d’ansia, fobie, comportamenti ossessivi o difficoltà relazionali possono compromettere il funzionamento globale della persona, anche in presenza di un QI nella norma.
Questi aspetti dimostrano che la disabilità intellettiva è una condizione complessa, che non si esaurisce in un punteggio numerico, ma richiede una valutazione globale e integrata.
Una prospettiva multidimensionale
La diagnosi non può quindi basarsi su un unico parametro. È necessario integrare:
- test cognitivi,
- valutazioni delle competenze adattive,
- osservazioni comportamentali,
- informazioni raccolte da famiglia, scuola e contesto sociale.
Solo un approccio multidimensionale consente di restituire un profilo realistico, utile non solo per definire la condizione clinica, ma soprattutto per guidare la progettazione educativa e riabilitativa.
Procedure di valutazione e raccolta delle informazioni
Un processo multidimensionale e interdisciplinare
La valutazione della disabilità intellettiva non può limitarsi a un singolo test o a un referto clinico. È un processo multidimensionale, che integra competenze mediche, psicologiche, educative e sociali. L’obiettivo è raccogliere il maggior numero possibile di informazioni per delineare un quadro fedele della persona e dei suoi bisogni.
La valutazione deve quindi essere anche interdisciplinare: coinvolge medici, psicologi, insegnanti, assistenti sociali e famiglie, ciascuno portatore di osservazioni e dati preziosi.
Strumenti e fonti di informazione
Tra gli strumenti e le procedure più utilizzati troviamo:
- Osservazione comportamentale: consente di registrare come l’individuo affronta le situazioni quotidiane, scolastiche e sociali.
- Valutazione cognitiva e neuropsicologica: test e scale specifiche che analizzano le capacità cognitive e il profilo intellettivo.
- Valutazione psichiatrica: esplora eventuali disturbi emotivi, ansiosi o ossessivi che possono incidere sul funzionamento globale.
- Profilo comportamentale: descrizione delle modalità relazionali, delle abitudini e delle reazioni emotive.
- Interviste e colloqui: raccolta di informazioni da familiari, insegnanti e operatori che conoscono la persona.
Ognuno di questi strumenti contribuisce a costruire una “storia” del soggetto, che non si limita all’aspetto clinico, ma include anche dimensioni affettive, relazionali e sociali.
Il valore del follow-up
La valutazione non si esaurisce in un momento unico. È fondamentale prevedere un follow-up, cioè un monitoraggio nel tempo che permetta di verificare l’evoluzione della persona, l’efficacia degli interventi e l’eventuale necessità di ricalibrare i sostegni.
Questa continuità è essenziale soprattutto in età evolutiva, quando i cambiamenti nello sviluppo possono modificare rapidamente bisogni e potenzialità.
L’importanza delle informazioni contestuali
Oltre agli aspetti clinici, la raccolta di informazioni deve riguardare anche:
- storia personale e familiare (eventuali traumi, perdite, cambiamenti significativi),
- condizioni socio-economiche e culturali,
- esperienze scolastiche e relazionali,
- eventuali disabilità sensoriali associate,
- trattamenti e terapie in corso (farmaci, riabilitazioni, interventi educativi).
Questi elementi forniscono chiavi di lettura indispensabili per comprendere l’impatto che i diversi fattori hanno avuto e continuano ad avere sul funzionamento della persona.
Un approccio investigativo
Gli insegnanti e gli operatori che si occupano di sostegno devono assumere un ruolo quasi “investigativo”: non accontentarsi della diagnosi clinica, ma approfondire, raccogliere dettagli, fare domande alla famiglia e agli specialisti. Più completo sarà il quadro delle informazioni, più efficace sarà la progettazione educativa e la personalizzazione del PEI.
Considerazioni finali e implicazioni scolastiche
Una visione globale della persona
La disabilità intellettiva non può essere ridotta a un semplice punteggio di QI o a una classificazione clinica. È una condizione complessa, che coinvolge aspetti cognitivi, affettivi, sociali e ambientali. Per questo motivo, ogni processo di valutazione deve integrare informazioni provenienti da più fonti e discipline, con l’obiettivo di restituire una rappresentazione realistica e completa della persona.
Il ruolo centrale della scuola
La scuola è uno dei contesti in cui le difficoltà, ma anche le potenzialità, emergono con maggiore chiarezza. L’ingresso nei percorsi scolastici rappresenta infatti un momento cruciale, in cui le richieste di apprendimento e di adattamento sociale mettono in luce eventuali fragilità.
Gli insegnanti, e in particolare quelli di sostegno, hanno un ruolo fondamentale nell’osservazione quotidiana e nella traduzione delle diagnosi cliniche in azioni educative concrete. L’uso di strumenti come l’ICF consente di valorizzare i punti di forza, individuare le aree di bisogno e costruire percorsi inclusivi che favoriscano autonomia e partecipazione.
Collaborazione e rete di sostegno
Perché un intervento sia realmente efficace, è indispensabile la collaborazione tra scuola, famiglia e specialisti. Ogni attore porta una prospettiva diversa, ma complementare:
- la famiglia offre una conoscenza approfondita della storia personale,
- gli specialisti forniscono il quadro clinico e terapeutico,
- la scuola osserva quotidianamente le modalità di apprendimento e di relazione.
Solo l’integrazione di questi punti di vista consente di costruire un progetto educativo individualizzato realmente efficace.
Verso un approccio inclusivo
L’obiettivo finale non è solo compensare le difficoltà, ma promuovere la piena partecipazione sociale della persona. Questo significa creare ambienti di apprendimento accessibili, stimolanti e rispettosi delle differenze, in cui ciascun individuo possa esprimere le proprie potenzialità.
In questa prospettiva, la disabilità intellettiva non è definita unicamente dai limiti, ma anche dalle opportunità di crescita che possono emergere quando la persona viene sostenuta con strumenti adeguati, in un contesto che riconosce e valorizza la sua unicità.
Disclaimer: I contenuti hanno carattere divulgativo e non sostituiscono materiale didattico ufficiale. Sono pensati come risorsa di supporto per lo studio e la preparazione a percorsi formativi e concorsuali.
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