Che cos’è la disabilità intellettiva: guida completa

La nuova prospettiva sulla disabilità intellettiva

Competenze Psicopedagogiche per il Docente Inclusivo

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Negli ultimi decenni la comprensione della disabilità intellettiva ha conosciuto una profonda trasformazione. Da un approccio centrato esclusivamente sul deficit cognitivo, misurato attraverso test standardizzati, si è passati a una visione più complessa e inclusiva, che considera la persona nella sua globalità e nel contesto in cui vive. Oggi non si parla più di “ritardo mentale”, un termine riduttivo e stigmatizzante, ma di disabilità intellettiva, espressione che riflette una prospettiva multidimensionale in cui entrano in gioco capacità cognitive, funzionamento adattivo, abilità sociali, autonomia personale e qualità dei sostegni ricevuti.

Questa evoluzione lessicale non è un semplice cambiamento terminologico, ma rappresenta un passaggio culturale ed etico. Significa riconoscere che la disabilità intellettiva non è una condizione statica e immutabile, bensì un fenomeno dinamico che prende forma dall’interazione tra le caratteristiche individuali e le opportunità offerte dall’ambiente. Una persona può incontrare ostacoli significativi in un contesto privo di supporti, ma riuscire a esprimere competenze e autonomie in un ambiente inclusivo e ben strutturato.

La prospettiva contemporanea integra modelli scientifici, psicologici, educativi e sociali. Organizzazioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’American Psychiatric Association (APA) e l’American Association on Intellectual and Developmental Disabilities (AAIDD) hanno contribuito a ridefinire criteri e linee guida, orientando pratiche diagnostiche, educative e riabilitative verso un approccio più umano e rispettoso. In Italia, questa visione trova riscontro anche nelle normative che promuovono l’inclusione scolastica e sociale, ponendo l’accento sul diritto di ogni persona a partecipare attivamente alla vita comunitaria.

Guardare alla disabilità intellettiva con questa lente significa spostare l’attenzione dal “quanto manca” al “cosa è possibile costruire”. Non si tratta di negare le difficoltà, ma di interpretarle come punti di partenza per progettare sostegni efficaci e personalizzati. La scuola, la famiglia e la società nel loro insieme diventano quindi attori fondamentali nel creare condizioni che permettano a ciascun individuo di sviluppare al meglio le proprie potenzialità.

Definizione e criteri fondamentali

La disabilità intellettiva è una condizione dello sviluppo caratterizzata da significative limitazioni nelle funzioni cognitive e nel funzionamento adattivo, con esordio nell’età evolutiva. Non riguarda soltanto le abilità misurate da un test di intelligenza, ma comprende la capacità di utilizzare tali competenze nella vita quotidiana, nelle relazioni e nella gestione dell’autonomia personale. L’elemento centrale è quindi la traduzione delle capacità cognitive in comportamenti concreti, utili e funzionali al contesto di vita.

Dal “ritardo mentale” alla disabilità intellettiva

Il termine “ritardo mentale”, storicamente utilizzato nei manuali diagnostici, rispecchiava una visione limitata e fortemente centrata sul deficit. Questa espressione ha progressivamente lasciato spazio a “disabilità intellettiva”, che mette in rilievo la complessità del funzionamento umano e introduce una prospettiva etica più rispettosa. Non si tratta di un semplice aggiornamento lessicale, ma del riconoscimento che il funzionamento adattivo e i fattori contestuali sono decisivi per comprendere le reali possibilità di una persona.

Centralità del contesto e del funzionamento adattivo

La disabilità intellettiva si manifesta sempre all’interno di un contesto sociale, culturale e relazionale specifico. Le stesse abilità possono apparire più o meno adeguate a seconda delle richieste ambientali e del livello di sostegno garantito. Per questo motivo, i principali sistemi diagnostici (come il DSM-5 e l’ICD-11) non si limitano a descrivere i deficit cognitivi, ma valutano anche:

  • le competenze concettuali (linguaggio, lettura, scrittura, calcolo);
  • le competenze sociali (relazioni interpersonali, comprensione dei ruoli, giudizio sociale);
  • le competenze pratiche (cura di sé, gestione della casa, autonomia negli spostamenti).

Queste tre aree costituiscono i domini del funzionamento adattivo, fondamentali per stabilire l’intensità dei sostegni richiesti.

Un concetto dinamico e non statico

La disabilità intellettiva non deve essere considerata come un limite invalicabile. L’intervento educativo, il supporto familiare e i servizi riabilitativi possono incidere significativamente sul percorso di crescita, favorendo l’acquisizione di nuove competenze e l’ampliamento dell’autonomia. In questa prospettiva, la valutazione non si riduce a un punteggio di quoziente intellettivo, ma diventa un processo complesso che integra osservazioni ecologiche, storia evolutiva e qualità dei sostegni ricevuti.

Quadri di riferimento internazionali

La definizione e la classificazione della disabilità intellettiva si basano su diversi sistemi di riferimento internazionali, elaborati da organizzazioni scientifiche e istituzionali. Questi modelli non sono in contraddizione, ma offrono prospettive complementari, utili per comprendere la complessità della condizione e guidare interventi educativi, riabilitativi e sociali.

ICD-10 e ICD-11

L’International Classification of Diseases (ICD) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha storicamente utilizzato il termine “ritardo mentale”, suddividendo i livelli di gravità in base al quoziente intellettivo. Con la versione aggiornata, ICD-11, si abbandona questa impostazione rigida per adottare il concetto di “disturbo dello sviluppo intellettivo”. La gravità non è più stabilita solo dal QI, ma dalla qualità del funzionamento adattivo, dalle abilità comunicative, sociali e pratiche, nonché dall’intensità dei sostegni richiesti nella vita quotidiana.

DSM-5

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) dell’American Psychiatric Association definisce la disabilità intellettiva attraverso tre criteri:

  • deficit nelle funzioni intellettive (ragionamento, problem solving, pensiero astratto, giudizio critico);
  • deficit nel funzionamento adattivo, con compromissione dell’autonomia personale e sociale;
  • esordio nel periodo dello sviluppo.

La gravità non viene più calcolata in base al punteggio del test, ma considerando i domini del funzionamento adattivo (concettuale, sociale, pratico), con un’attenzione particolare al modo in cui la persona affronta le sfide della vita reale.

ICF: il modello bio-psico-sociale

L’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF), sempre dell’OMS, propone un approccio radicalmente diverso. Non si concentra sulla malattia, ma sul funzionamento umano complessivo, considerando:

  • funzioni e strutture corporee;
  • attività che la persona può svolgere;
  • partecipazione alla vita sociale, scolastica e lavorativa;
  • fattori ambientali che facilitano o ostacolano l’inclusione.

Questo modello segna il passaggio da una prospettiva medica, centrata sul deficit, a una prospettiva bio-psico-sociale, che valorizza la partecipazione e l’interazione con l’ambiente.

AAIDD: il ruolo dei sostegni

L’American Association on Intellectual and Developmental Disabilities (AAIDD) definisce la disabilità intellettiva come una condizione caratterizzata da significative limitazioni sia nel funzionamento intellettivo sia nel comportamento adattivo, con esordio prima dei 18 anni. L’aspetto innovativo è l’attenzione posta sui sostegni: la disabilità non è vista come una caratteristica immutabile della persona, ma come il risultato dell’interazione con il contesto. Migliorando i sostegni (educativi, terapeutici, tecnologici e sociali), è possibile potenziare le competenze e la qualità della vita.

Convergenze operative

Pur con differenze terminologiche e concettuali, tutti i modelli internazionali condividono alcuni elementi chiave: l’esordio in età evolutiva, la centralità del funzionamento adattivo, la valutazione multidimensionale e il ruolo decisivo dell’ambiente. Questi punti comuni costituiscono la base per una lettura integrata e per una progettazione educativa realmente inclusiva.

Domini del funzionamento e livelli di gravità

La disabilità intellettiva non si descrive soltanto attraverso punteggi o misurazioni cognitive, ma viene letta in base a come la persona utilizza le proprie competenze nella vita quotidiana. I principali sistemi diagnostici, come il DSM-5 e l’ICD-11, distinguono tre domini del funzionamento adattivo che, nel loro insieme, permettono di comprendere meglio i bisogni educativi e riabilitativi.

Dominio concettuale

Riguarda le abilità cognitive applicate a contesti concreti. Include linguaggio, lettura e scrittura funzionale, calcolo e gestione del denaro, capacità di organizzazione e pianificazione, memoria di lavoro e pensiero astratto. Queste competenze sono alla base dell’apprendimento scolastico, ma anche di attività quotidiane come comprendere un avviso, gestire un orario o calcolare una spesa.

Dominio sociale

Comprende le competenze relazionali e comunicative. Riguarda la capacità di instaurare e mantenere relazioni, comprendere segnali non verbali, rispettare regole e ruoli sociali, riconoscere le intenzioni altrui ed esercitare giudizio sociale. Le difficoltà in questo dominio possono tradursi in ingenuità, vulnerabilità a manipolazioni o difficoltà a risolvere conflitti.

Dominio pratico

Si riferisce all’autonomia personale e alla gestione degli ambienti di vita. Comprende la cura di sé (alimentazione, igiene, vestizione), la gestione della casa e della scuola, l’uso dei mezzi di trasporto, la sicurezza personale, la gestione del tempo e delle routine quotidiane, fino alle responsabilità lavorative in età adulta.

Livelli di gravità

Il DSM-5 e l’ICD-11 non stabiliscono la gravità in base al solo quoziente intellettivo, ma attraverso il grado di sostegno necessario nei tre domini.

  • Lieve: difficoltà in alcune abilità accademiche oltre la scuola primaria; relazioni generalmente possibili, ma con necessità di guida in contesti complessi; buona autonomia personale con supporti mirati.
  • Moderato: apprendimenti funzionali limitati; comunicazione semplificata; autonomia parziale nelle attività quotidiane con supervisione regolare.
  • Grave: forte dipendenza da supporti visivi, strategie concrete e routine strutturate; comunicazione essenziale con possibile ricorso a sistemi alternativi; necessità di supervisione costante.
  • Profondo: abilità molto limitate, con obiettivi centrati su risposte sensori-motorie e interazioni basate prevalentemente sul rapporto con caregiver; sostegno continuativo in tutte le attività di vita.

Un approccio dinamico

Queste descrizioni non rappresentano etichette rigide, ma indicazioni per pianificare interventi personalizzati. La gravità non è una condanna immutabile: il livello di autonomia e partecipazione può migliorare attraverso strategie educative mirate, sostegni tecnologici e ambienti inclusivi. La valutazione, dunque, deve considerare non solo le difficoltà, ma anche le potenzialità e le risorse su cui costruire percorsi di crescita.

Il superamento del concetto di età mentale

Per molti anni, nel descrivere la disabilità intellettiva, si è fatto ricorso al concetto di “età mentale”, un’espressione che paragonava le capacità cognitive di una persona adulta a quelle di un bambino. Dire, ad esempio, che un adulto con disabilità “ha un’età mentale di 6 anni” significava collocarlo su una scala che traduceva i punteggi dei test di intelligenza in equivalenze infantili.

Oggi questa prospettiva è considerata fuorviante e riduttiva. Sebbene possa sembrare intuitiva, in realtà non restituisce un quadro realistico del funzionamento della persona. Un adulto con disabilità intellettiva può avere difficoltà in alcuni ambiti cognitivi, ma possiede comunque esperienze di vita, affetti, interessi e bisogni propri di un adulto. L’uso del concetto di età mentale rischia quindi di infantilizzare e di abbassare ingiustamente le aspettative di insegnanti, operatori e familiari, con conseguenze negative sul progetto educativo e di vita.

Le attuali linee guida internazionali, come l’ICD-11 e il DSM-5, hanno abbandonato questo riferimento, sostituendolo con una valutazione basata sul funzionamento adattivo e sull’analisi delle competenze effettivamente osservabili nei contesti reali. Non è più importante sapere “a che età mentale corrisponde” una persona, ma comprendere in quali condizioni riesce a utilizzare le proprie capacità, quali supporti risultano necessari e come organizzare l’ambiente per favorire la sua partecipazione.

In campo educativo, questo cambiamento ha un impatto decisivo. Un approccio centrato sull’età mentale può portare a proporre attività e obiettivi inadeguati, troppo semplificati o poco rispettosi della dignità personale. Al contrario, una valutazione centrata sul funzionamento e sui sostegni consente di costruire percorsi che riconoscono lo studente come soggetto adulto in formazione, capace di apprendere e crescere se messo nelle condizioni adeguate.

Superare il concetto di età mentale significa quindi adottare uno sguardo più realistico, rispettoso e inclusivo, che non riduce la persona a un numero o a un confronto improprio, ma valorizza le sue possibilità di sviluppo lungo tutto l’arco della vita.

Implicazioni educative e scolastiche

Il riconoscimento della disabilità intellettiva non ha soltanto una funzione descrittiva o diagnostica, ma assume un valore operativo fondamentale in ambito educativo. La scuola, infatti, è uno dei principali contesti in cui si rende visibile la condizione, e al tempo stesso rappresenta l’ambiente privilegiato per attivare interventi mirati, favorire l’apprendimento e promuovere la partecipazione sociale.

Valutazione globale e condivisa

Un primo passo imprescindibile è la valutazione del funzionamento dell’alunno. Questa non può limitarsi a misurare le carenze cognitive, ma deve considerare abilità intellettive, funzionamento adattivo, competenze relazionali, fattori emotivi e condizioni ambientali. Inoltre, non è un compito delegato al solo insegnante di sostegno: si tratta di un processo collegiale, che coinvolge tutti i docenti, la famiglia e, quando necessario, professionisti sanitari o riabilitativi. La valutazione serve a individuare punti di forza e barriere, così da impostare obiettivi realistici e personalizzati.

Il Piano Educativo Individualizzato (PEI)

In Italia, lo strumento cardine è il PEI, che negli ultimi anni è stato riformulato secondo il modello bio-psico-sociale dell’ICF. Il documento non si limita a elencare difficoltà, ma descrive:

  • il profilo di funzionamento dell’alunno;
  • i facilitatori e gli ostacoli presenti a scuola e a casa;
  • gli obiettivi educativi e didattici, formulati in termini concreti e misurabili;
  • le strategie didattiche, le metodologie inclusive e gli strumenti compensativi da utilizzare;
  • le modalità di verifica e monitoraggio dei progressi.

Questa impostazione permette di trasformare la diagnosi in progettualità educativa, orientata non solo all’apprendimento, ma anche all’autonomia, alla socializzazione e alla costruzione di competenze utili nella vita quotidiana.

Sostegni personalizzati e inclusione scolastica

I sostegni non coincidono unicamente con l’aiuto diretto dell’insegnante di sostegno. Essi includono:

  • strategie didattiche inclusive (uso di immagini, mappe concettuali, semplificazione linguistica, spiegazioni graduate);
  • strumenti tecnologici (comunicazione aumentativa e alternativa, software di scrittura semplificata, applicazioni per la gestione del tempo);
  • organizzazione dell’ambiente scolastico (routine prevedibili, spazi ordinati, tempi distesi);
  • supporti sociali (cooperative learning, tutoring tra pari, gruppi di sostegno).

In questo senso, l’inclusione diventa un compito condiviso: tutti i docenti sono corresponsabili e la famiglia è parte integrante del percorso. La collaborazione tra scuola e servizi sanitari, inoltre, garantisce una presa in carico globale.

Uno sguardo al futuro

Le scelte didattiche non si esauriscono nell’immediato. L’obiettivo non è soltanto acquisire conoscenze scolastiche, ma sviluppare competenze utili per la vita adulta: autonomia personale, capacità di scelta, relazioni significative, orientamento al lavoro. In quest’ottica, la scuola si configura come un laboratorio di inclusione e come un ponte verso la partecipazione sociale e comunitaria.

Dal deficit alla partecipazione: un cambio di paradigma

Negli ultimi anni la prospettiva sulla disabilità intellettiva si è spostata da una visione centrata esclusivamente sul deficit a un approccio che mette al centro la partecipazione e la qualità della vita. Questo cambiamento culturale è stato favorito dalle principali classificazioni internazionali (DSM-5, ICD-11, ICF, AAIDD), che pur partendo da angolazioni diverse convergono nell’idea che non è sufficiente descrivere cosa una persona non sa fare: occorre piuttosto comprendere come possa essere messa nelle condizioni di esprimere al meglio le proprie potenzialità.

Integrare i modelli teorici

Il valore dei diversi quadri di riferimento non sta nell’essere alternativi, ma nell’offrire prospettive complementari. Il DSM-5 fornisce criteri clinici, l’ICD-11 un linguaggio condiviso a livello internazionale, l’ICF un modello bio-psico-sociale e l’AAIDD un approccio basato sui sostegni. Integrati tra loro, questi strumenti consentono di leggere la disabilità intellettiva come un fenomeno multidimensionale, evitando semplificazioni eccessive.

Centralità dei sostegni

Uno degli elementi innovativi introdotti dalle prospettive più recenti è la concezione dei sostegni come leva primaria per lo sviluppo. Non sono un intervento accessorio o una compensazione, ma il vero strumento attraverso cui si costruiscono opportunità. Sostegni mirati, calibrati e continuativi possono trasformare radicalmente il livello di autonomia e partecipazione di una persona, incidendo non solo sul percorso scolastico, ma anche sulla vita familiare, lavorativa e sociale.

Partecipazione come obiettivo educativo

L’inclusione non coincide con la semplice presenza fisica a scuola o in altri contesti sociali. Significa poter partecipare attivamente, avere un ruolo riconosciuto, instaurare relazioni significative e contribuire al gruppo. La progettazione educativa deve quindi mirare non solo all’acquisizione di abilità strumentali, ma anche alla costruzione di competenze sociali e alla valorizzazione delle risorse personali.

Progettazione orientata al futuro

Ogni obiettivo educativo va interpretato come un tassello di un progetto di vita più ampio. La scuola, la famiglia e la comunità devono lavorare in sinergia per accompagnare la persona verso un futuro di autonomia, autodeterminazione e partecipazione sociale. Questo implica abbandonare la logica del “colmare mancanze” per abbracciare una prospettiva propositiva, che guarda a ciò che è possibile costruire con i giusti sostegni e con ambienti realmente inclusivi.

Conclusione: verso una scuola e una società inclusive

La disabilità intellettiva non è una condizione statica, né un’etichetta definitiva. È piuttosto il risultato dell’interazione tra caratteristiche personali e contesto, un equilibrio dinamico che può cambiare in base alle opportunità e ai sostegni disponibili. Per questo, parlare oggi di disabilità intellettiva significa adottare uno sguardo di lungo periodo, orientato alla partecipazione, all’autonomia e alla qualità della vita.

La scuola rappresenta uno degli ambiti privilegiati in cui questo approccio prende forma. Non si tratta soltanto di garantire l’accesso all’istruzione, ma di creare un ambiente in cui ogni studente possa sviluppare competenze utili per la propria vita, instaurare relazioni significative e prepararsi a un futuro attivo nella comunità. L’inclusione, quindi, non è un compito delegato al docente di sostegno, ma una responsabilità condivisa da tutto il personale scolastico, dalle famiglie e dai servizi territoriali.

Allo stesso modo, la società nel suo complesso è chiamata a rimuovere barriere e pregiudizi, a favorire politiche di inclusione lavorativa, culturale e sociale, e a valorizzare la diversità come risorsa. I modelli più recenti, come l’ICF e l’AAIDD, ci ricordano che la qualità della vita delle persone con disabilità intellettiva dipende in larga misura dalla capacità dell’ambiente di adattarsi ai bisogni individuali, fornendo sostegni adeguati, stabili e personalizzati.

Guardare alla disabilità intellettiva con questa prospettiva significa superare una logica centrata sulla mancanza, per abbracciare una visione generativa, che riconosce il potenziale di ogni persona e la possibilità di costruire percorsi di vita autentici e dignitosi. È un impegno che richiede formazione, risorse e corresponsabilità, ma che restituisce alla comunità una società più giusta, coesa e realmente inclusiva.

Box pratici riassuntivi

Punti chiave

  • La disabilità intellettiva è definita da limitazioni nelle funzioni cognitive e nel funzionamento adattivo, con esordio in età evolutiva.
  • I criteri diagnostici attuali (DSM-5, ICD-11) valorizzano i domini concettuale, sociale e pratico, più che il solo quoziente intellettivo.
  • Il concetto di “età mentale” è superato perché riduttivo e stigmatizzante.
  • Il modello ICF sposta l’attenzione dal deficit alla partecipazione, considerando anche fattori ambientali e personali.
  • I sostegni personalizzati sono la leva principale per migliorare autonomia e qualità della vita.

Errori comuni

  • Ridurre la valutazione alla sola misurazione del QI.
  • Confondere la disabilità intellettiva con disturbi specifici dell’apprendimento o con il semplice ritardo scolastico.
  • Usare ancora espressioni come “età mentale” o “ritardo mentale”.
  • Delegare l’inclusione esclusivamente all’insegnante di sostegno.
  • Sottovalutare il ruolo delle barriere ambientali e sociali.

Checklist per la pratica educativa

  • Effettuare una valutazione globale e multidimensionale, con il coinvolgimento di docenti, famiglia e specialisti.
  • Redigere un PEI secondo il modello bio-psico-sociale, con obiettivi concreti e misurabili.
  • Identificare punti di forza e risorse personali, non solo difficoltà.
  • Integrare strategie didattiche inclusive e strumenti tecnologici personalizzati.
  • Favorire la collaborazione tra scuola, famiglia e servizi territoriali.
  • Monitorare periodicamente i progressi e adattare i sostegni.

Suggerimenti operativi

  • Usare metodologie attive e visive (mappe, immagini, schemi, task analysis).
  • Prevedere routine chiare e ambienti strutturati che riducano l’ansia e favoriscano la prevedibilità.
  • Introdurre il cooperative learning e il tutoring tra pari per potenziare la partecipazione sociale.
  • Promuovere esperienze pratiche che collegano gli apprendimenti scolastici alla vita quotidiana.
  • Formare l’intero corpo docente all’inclusione, per creare un clima relazionale positivo e coerente.
  • Coinvolgere attivamente la famiglia, considerandola parte integrante del progetto educativo.

Fonti e letture consigliate

  • American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition (DSM-5). Washington, DC.
  • Organizzazione Mondiale della Sanità (2019). International Classification of Diseases, 11th Revision (ICD-11). Geneva: WHO.
  • Organizzazione Mondiale della Sanità (2001). International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). Geneva: WHO.
  • Schalock, R. L., et al. (2010). Intellectual Disability: Definition, Classification, and Systems of Supports. Washington, DC: American Association on Intellectual and Developmental Disabilities (AAIDD).
  • Ministero dell’Istruzione e del Merito (Italia). Linee guida per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità (aggiornamenti normativi in attuazione del D.Lgs. 66/2017).
  • European Agency for Special Needs and Inclusive Education. Documenti e rapporti sull’inclusione scolastica disponibili su: https://www.european-agency.org.
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