Dall’esclusione all’inclusione: le origini storiche dell’educazione speciale in Italia
Introduzione: un percorso complesso e in continua evoluzione
Competenze Psicopedagogiche per il Docente Inclusivo
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Parlare oggi di inclusione scolastica significa collocarsi all’interno di un lungo cammino storico e culturale che ha visto la progressiva trasformazione del concetto di disabilità e del ruolo della scuola nella società. In passato, le persone con menomazioni fisiche o cognitive erano considerate un peso, prive di diritti educativi e sociali. Soltanto con l’evoluzione dei paradigmi culturali, pedagogici e giuridici si è giunti a riconoscere l’educazione come un diritto universale, esteso a tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni individuali.
L’Italia rappresenta un caso di particolare rilievo: a partire dalla seconda metà del Novecento, il nostro Paese si è distinto a livello europeo per aver anticipato politiche di integrazione e inclusione che hanno trasformato la scuola da istituzione selettiva ed esclusiva a laboratorio di convivenza e pluralità. Questo percorso, tuttavia, non è stato lineare: è passato attraverso fasi di esclusione, separazione, inserimento e, infine, integrazione e inclusione. Analizzarle consente di comprendere meglio come si siano modificati i concetti stessi di disabilità e di normalità, e come tali cambiamenti abbiano influenzato linguaggio, legislazione e prassi educativa.
La fase dell’esclusione: il paradigma dell’ineducabilità
Per secoli, la disabilità è stata associata a un marchio sociale e culturale. Nel contesto europeo, e in Italia in particolare, la condizione di chi presentava deficit fisici o psichici veniva interpretata come segno di inadeguatezza o addirittura di pericolosità, con conseguente allontanamento dalla vita comunitaria. La scuola, quando esisteva, era destinata a un’élite ristretta di figli di famiglie abbienti. L’istruzione era vista come privilegio, non come diritto. In questo quadro, chi non possedeva integrità fisica o mentale veniva automaticamente escluso: prevaleva l’idea di ineducabilità, un concetto che negava la possibilità stessa di apprendimento per i soggetti ritenuti “imperfetti”.
Questa concezione era rafforzata anche dal contesto religioso e culturale dell’epoca. In molti casi, le persone con disabilità erano affidate a istituzioni di tipo caritatevole o ricoverate in ospizi, dove l’assistenza prevaleva sull’istruzione. L’obiettivo non era sviluppare potenzialità, ma piuttosto “contenere” il diverso, proteggendo la società dalla sua presenza percepita come disturbante. La disabilità, quindi, era letta più come un problema da isolare che come una sfida educativa.
L’intreccio con la medicalizzazione
Il concetto di ineducabilità si saldò progressivamente con quello di medicalizzazione. A partire dal XIX secolo, il discorso sulla disabilità fu preso in carico dal sapere medico, che iniziò a definire le persone attraverso diagnosi cliniche e classificazioni. La dimensione sanitaria divenne predominante: la persona con deficit era vista non tanto come alunno, quanto come paziente. Questo approccio condizionò profondamente il linguaggio, le rappresentazioni sociali e le prime normative, che recepirono termini oggi riconosciuti come stigmatizzanti.
Espressioni come “sordomuto” o “mongoloide”, un tempo considerate scientifiche, riflettevano una concezione riduttiva che etichettava gli individui in base a caratteristiche patologiche. L’uso di tali etichette contribuiva a cristallizzare stereotipi e barriere culturali, impedendo di intravedere nella persona possibilità di sviluppo cognitivo, affettivo o sociale. È soltanto nella seconda metà del Novecento, con il diffondersi di nuovi approcci psicopedagogici, che si iniziò a superare questa visione rigidamente clinica.
Le conseguenze sull’istruzione
La mancanza di un diritto universale allo studio, unita all’idea di ineducabilità, ebbe effetti di lungo periodo. Per gran parte dell’Ottocento, le persone con disabilità non avevano accesso ad alcuna forma di educazione sistematica. Al massimo, potevano beneficiare di cure rudimentali o di interventi di carattere assistenziale in istituti religiosi. L’istruzione restava appannaggio dei cosiddetti “normali”, mentre chi era portatore di deficit veniva lasciato ai margini.
Soltanto in alcuni contesti illuminati, soprattutto in Francia e successivamente in Italia, cominciarono a sorgere tentativi di educazione specifica per ciechi e sordi, grazie all’opera di figure come Jean-Marc Gaspard Itard e, in seguito, Louis Braille. Tuttavia, queste esperienze erano eccezioni rispetto a una realtà dominata dall’esclusione. Ancora all’inizio del Novecento, la scuola italiana rimaneva impermeabile a ogni forma di accoglienza per gli alunni con disabilità, consolidando un modello selettivo che avrebbe resistito fino alla metà del secolo.
Dalla separazione all’inizio del cambiamento: scuole speciali e classi differenziali
Il passaggio dalla carità all’educazione dedicata
Dopo la lunga epoca dell’esclusione, tra la fine del Settecento e l’Ottocento si affacciò in Europa un nuovo paradigma: non più soltanto confinare o assistere le persone con disabilità, ma tentare di educarle, seppur in contesti separati dalla scuola comune. La nascita di istituti specifici per ciechi e sordi segna questo passaggio. A Roma, nel 1784, fu fondato il primo istituto per sordi, mentre a Napoli nel 1818 aprì il primo istituto per ciechi. Queste strutture si proponevano di fornire strumenti educativi di base utilizzando approcci innovativi per l’epoca, come il metodo Braille o la lingua dei segni.
Questi esperimenti, tuttavia, restavano limitati a una logica separativa: l’alunno con disabilità non entrava nel sistema scolastico generale, ma rimaneva confinato in percorsi dedicati. Gli insegnanti non avevano quasi mai una formazione pedagogica specifica; provenivano in larga parte dal mondo medico o religioso, e il loro compito era più assistenziale che educativo. La scuola speciale nasceva quindi come via parallela, non come apertura verso una scuola per tutti.
La legislazione ottocentesca: tra alfabetizzazione e discriminazione
L’Unità d’Italia (1861) segnò l’avvio di una politica scolastica nazionale. La legge Casati del 1859, estesa a tutto il nuovo Stato, introdusse l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita nei primi due anni, con l’obiettivo dichiarato di “fare gli italiani”. Tuttavia, dietro questa apertura si celava un sistema fortemente selettivo, incentrato su modelli uniformi e poco attento alle differenze individuali.
Il Regio Decreto del 1859 introdusse le classi differenziali per “fanciulli anormali”. Questa definizione, oggi percepita come gravemente offensiva, rifletteva la mentalità dell’epoca: bastava non rientrare nei tempi e nei ritmi previsti dalla scuola “normale” per essere esclusi e collocati in percorsi separati. La logica era quella di una scuola vista come “macchina tayloristica”, in cui tutti gli alunni dovevano rispondere a standard identici; chi non si adeguava veniva rimosso dal gruppo per non disturbare il funzionamento complessivo.
Chi erano i cosiddetti “anormali”
La categoria degli “anormali” era ampia e indistinta. Vi rientravano:
- bambini con deficit sensoriali o cognitivi,
- alunni iperattivi o con disturbi del comportamento,
- studenti provenienti da famiglie svantaggiate che mostravano difficoltà di adattamento,
- ragazzi con basso rendimento scolastico non riconducibile a disabilità certificata.
La scuola, incapace di gestire la diversità, tendeva a collocare in queste classi chiunque non si conformasse all’ideale di alunno disciplinato e produttivo. L’istituzione scolastica non si percepiva come responsabile del fallimento formativo: la colpa veniva attribuita al bambino, definito “anormale” o “inadatto”.
Il dopoguerra e il limite del modello separativo
Nonostante l’entrata in vigore della Costituzione italiana nel 1948, che con l’articolo 34 sanciva che “la scuola è aperta a tutti”, la pratica della separazione rimase dominante ancora per anni. La riforma della scuola media unica del 1962, ad esempio, mantenne le classi differenziali, ora dedicate ai cosiddetti “disadattati scolastici”. Si trattava di una nuova etichetta che, pur cambiando nome, continuava a perpetuare l’idea di segregare chi non rispondeva agli standard comuni.
Questa contraddizione rivelava lo scarto tra il dettato costituzionale e la realtà delle scuole. L’inclusione, pur proclamata in linea di principio, non trovava applicazione concreta: la scuola italiana rimaneva divisa tra alunni “integrabili” e alunni “da separare”.
Un contesto in trasformazione
Negli anni Sessanta la società italiana iniziò a cambiare rapidamente. Il boom economico, l’aumento della scolarizzazione e i movimenti culturali di rinnovamento misero in discussione il modello selettivo e classista della scuola. A livello internazionale, l’UNESCO e altre organizzazioni iniziarono a promuovere riflessioni sull’educazione come diritto universale e sulla necessità di garantire pari opportunità.
In questo clima, la nozione di “anormalità” cominciò a lasciare spazio a quella di diversità: non più un deficit da escludere, ma una condizione da riconoscere e, potenzialmente, valorizzare. Questo cambio di paradigma aprì la strada alle successive riforme italiane degli anni Settanta, che segneranno il passaggio dall’idea di semplice inserimento alla prospettiva dell’inclusione.
La fase dell’inserimento: verso una nuova idea di scuola
Gli anni Settanta rappresentano un punto di svolta nella storia dell’educazione italiana. Dopo decenni di scuole speciali e classi differenziali, la società iniziò a maturare la convinzione che la disabilità non potesse più essere motivo di esclusione, ma dovesse trovare spazio all’interno della vita collettiva. Il contesto internazionale, segnato dal fermento culturale del 1968, dal dibattito sui diritti civili e dalle riflessioni dell’UNESCO sull’educazione per tutti, alimentò anche in Italia un clima favorevole al cambiamento.
In questo scenario, le famiglie e le associazioni iniziarono a rivendicare con forza il diritto all’istruzione per i propri figli, spingendo le istituzioni a rivedere un sistema che, fino a quel momento, aveva collocato la diversità ai margini. Non si trattava ancora di inclusione vera e propria, ma di un primo riconoscimento del fatto che la scuola dovesse assumersi la responsabilità di accogliere e sostenere tutti gli alunni.
La legge 118 del 1971: il riconoscimento del diritto alla frequenza
Il primo passo concreto fu la legge 118/1971. Questa norma, nata principalmente per disciplinare aspetti di previdenza e assistenza delle persone invalide civili, conteneva un articolo fondamentale: stabiliva che gli alunni con disabilità avessero diritto a frequentare le classi comuni, purché fossero garantiti servizi e misure di supporto, come il trasporto scolastico e l’assistenza.
La formulazione era ancora ambivalente. Da un lato, segnava il superamento del paradigma segregante e sanciva che la scuola pubblica dovesse aprirsi a tutti. Dall’altro, inseriva una condizione che tradiva le resistenze culturali dell’epoca: la presenza degli alunni con disabilità non doveva ostacolare il “normale svolgimento delle lezioni”. In questa espressione si rifletteva la tensione tra l’affermazione di un diritto universale e la preoccupazione di non compromettere l’efficienza del sistema scolastico.
Nonostante i suoi limiti, la legge 118/1971 rappresentò un momento storico. Per la prima volta, la scuola non si limitava ad accogliere “a parte” ma riconosceva formalmente la possibilità di accesso alle classi comuni, aprendo la strada a ulteriori trasformazioni.
Il documento Falcucci del 1975: una svolta pedagogica
Quattro anni dopo, un nuovo passo decisivo arrivò con il documento ministeriale noto come “Relazione Falcucci”, dal nome del ministro della Pubblica Istruzione che lo promosse. Si trattava della prima riflessione organica del Ministero sull’inserimento scolastico degli alunni con disabilità.
Il documento rappresentava una rottura radicale con la tradizione delle classi differenziali, definite “discriminatorie e ghettizzanti”. Per la prima volta, la diversità non veniva descritta come deficit da contenere, ma come risorsa educativa. Venivano introdotti concetti innovativi per l’epoca, come:
- Personalizzazione dell’insegnamento, cioè adattare metodi e contenuti alle caratteristiche del singolo alunno.
- Progetto educativo individualizzato, antesignano del Piano Educativo Individualizzato (PEI) odierno.
- Formazione specifica degli insegnanti, affinché potessero affrontare in modo professionale le sfide dell’inclusione.
La relazione Falcucci riconosceva inoltre che l’handicap non fosse solo una condizione individuale, ma il risultato dell’interazione tra persona e ambiente. Le barriere architettoniche, culturali e organizzative potevano aggravare le difficoltà, mentre un contesto favorevole era in grado di ridurle. Si trattava di un’anticipazione di quello che, anni dopo, sarebbe stato formalizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con il modello bio-psico-sociale.
Una nuova visione della scuola come comunità educante
Il documento Falcucci non si limitava a delineare obiettivi pedagogici, ma proponeva una vera e propria visione culturale della scuola. Essa veniva intesa come comunità educante, capace di valorizzare le potenzialità di ciascun alunno e di promuovere la collaborazione tra scuola, famiglia e servizi socio-sanitari.
Veniva sottolineata l’importanza di:
- creare ambienti scolastici accessibili e stimolanti;
- adottare metodologie attive e linguaggi diversificati;
- rendere flessibili i tempi e i percorsi di apprendimento, valorizzando il tempo pieno come opportunità di socializzazione e crescita.
Questa prospettiva ribaltava l’approccio assistenziale, ponendo la scuola al centro di un progetto di cittadinanza inclusiva. Non era più sufficiente “tollerare” la presenza di studenti con disabilità: occorreva costruire percorsi personalizzati che li rendessero partecipi della vita scolastica.
Le difficoltà dell’applicazione concreta
Nonostante l’innovazione culturale introdotta dalla legge 118/1971 e dalla relazione Falcucci, la pratica quotidiana restava complessa. Molti istituti non disponevano di strutture accessibili, i docenti non erano ancora adeguatamente formati e resistenze culturali persistevano tra il personale scolastico. Tuttavia, la direzione era ormai tracciata: l’idea di una scuola per tutti cominciava a radicarsi, gettando le basi per la riforma storica del 1977.
La fase dell’integrazione: la svolta della legge 517/1977
Un nuovo paradigma educativo
Con la fine degli anni Settanta, il sistema scolastico italiano compì un salto di qualità senza precedenti. Dopo secoli di esclusione e decenni di separazione o inserimento condizionato, la legge 517 del 1977 segnò una svolta storica, inaugurando l’era dell’integrazione scolastica. Per la prima volta, il legislatore sancì non solo il diritto degli alunni con disabilità a frequentare la scuola comune, ma anche l’obbligo per l’istituzione scolastica di predisporre strumenti adeguati per consentire una reale partecipazione.
Questo passaggio rifletteva un cambiamento culturale profondo: la disabilità non era più interpretata come ostacolo insormontabile o come condizione da confinare, ma come elemento che poteva trovare risposta attraverso risorse didattiche, sostegni specifici e un nuovo modo di intendere la scuola.
I punti cardine della legge 517/1977
La legge introdusse innovazioni decisive, che avrebbero trasformato l’assetto della scuola italiana:
- Abolizione delle classi differenziali e speciali: la scuola smise di collocare in percorsi paralleli gli alunni definiti “anormali” o “disadattati”, sancendo l’unicità del percorso formativo.
- Introduzione dell’insegnante di sostegno: figura specializzata che, lavorando in sinergia con i docenti curricolari, diventava punto di riferimento per l’apprendimento e la socializzazione degli studenti con disabilità.
- Flessibilità del curriculum: la possibilità di adattare contenuti e obiettivi educativi alle caratteristiche del singolo studente, ribadendo che l’uguaglianza non consiste nel dare a tutti le stesse cose, ma nel garantire a ciascuno ciò di cui ha bisogno.
- Nuovo ruolo del consiglio di classe: la responsabilità educativa veniva condivisa da tutti i docenti, superando la logica dell’“affidamento esclusivo” al sostegno.
Questi principi delinearono un modello educativo innovativo, che andava oltre il semplice inserimento fisico e mirava a una reale partecipazione attiva degli alunni con disabilità.
L’applicazione nella scuola secondaria: un percorso a ostacoli
Se nella scuola dell’obbligo la riforma fu applicata con maggiore immediatezza, la sua estensione alla scuola secondaria di secondo grado incontrò difficoltà. Resistenze culturali, timori legati alla complessità delle discipline e mancanza di strutture adeguate rallentarono il processo.
Fu soltanto tra il 1987 e il 1988, grazie a una serie di circolari ministeriali e pronunce giurisprudenziali, che i principi dell’integrazione vennero pienamente riconosciuti anche nelle scuole superiori. Questa estensione rappresentò un passaggio cruciale: l’istruzione inclusiva non poteva fermarsi ai cicli di base, ma doveva abbracciare l’intero percorso formativo, fino all’università.
Il ruolo strategico dell’insegnante di sostegno
La figura dell’insegnante di sostegno divenne il simbolo stesso dell’integrazione scolastica. Non un semplice assistente, ma un mediatore pedagogico con competenze specifiche nella didattica speciale, capace di collaborare con il consiglio di classe e di costruire un ponte tra scuola, famiglia e servizi socio-sanitari.
Il suo compito non era solo supportare l’alunno con disabilità, ma promuovere pratiche didattiche inclusive rivolte a tutta la classe. In questo modo, l’integrazione non si limitava a un rapporto individuale, ma diventava occasione di crescita collettiva, favorendo il lavoro cooperativo, l’empatia e la valorizzazione delle differenze.
Un modello educativo innovativo a livello internazionale
La scelta italiana di puntare sull’integrazione nelle classi comuni si distinse nettamente dal modello di altri Paesi europei, che continuarono a mantenere sistemi di scuole speciali parallele. L’Italia divenne così un laboratorio unico, osservato con interesse da studiosi e organizzazioni internazionali.
Questa originalità non derivava soltanto da un atto legislativo, ma da una precisa visione etica e pedagogica: la scuola, per essere democratica, non poteva permettersi di escludere. L’integrazione divenne così parte del progetto di cittadinanza, in linea con i principi della Costituzione e con le convenzioni internazionali sui diritti delle persone con disabilità.
Le sfide della fase di avvio
Nonostante l’importanza della legge 517/1977, la sua applicazione concreta non fu semplice. Molte scuole non disponevano di risorse, spazi o strumenti adeguati; la formazione dei docenti era ancora insufficiente; le barriere culturali e organizzative non scomparvero dall’oggi al domani.
Eppure, il percorso avviato era irreversibile. L’integrazione non era più un’opzione facoltativa, ma un principio normativo che avrebbe guidato le successive riforme, aprendo la strada alla legge 104 del 1992 e al concetto più ampio di inclusione.
La legge 104/1992 e l’evoluzione verso l’inclusione
Un nuovo quadro normativo: dal diritto all’integrazione al diritto all’inclusione
Gli anni Novanta segnarono un ulteriore salto di qualità nel percorso italiano verso una scuola aperta a tutti. Dopo la svolta della legge 517/1977, che aveva introdotto l’insegnante di sostegno e abolito le classi differenziali, si avvertì la necessità di una cornice normativa più ampia, capace di garantire in maniera sistematica i diritti delle persone con disabilità. Questa esigenza trovò risposta nella legge 104 del 1992, tuttora considerata la normativa di riferimento in materia.
La legge 104 sancì un principio fondamentale: la persona con disabilità è titolare di diritti inviolabili e, in quanto tale, deve essere messa nelle condizioni di partecipare pienamente alla vita sociale, scolastica e lavorativa. L’istruzione non era più un ambito “tollerante” nei confronti della diversità, ma il luogo privilegiato in cui esercitare il diritto all’inclusione.
I punti salienti della legge 104/1992
Gli articoli 12-16 del testo normativo fissarono alcuni principi cardine per la scuola:
- Diritto all’istruzione in tutte le fasi della vita scolastica, dall’infanzia all’università.
- Ribadita la frequenza nelle classi comuni, senza possibilità di esclusione o segregazione.
- Introduzione ufficiale del Piano Educativo Individualizzato (PEI), strumento che consentiva di personalizzare gli obiettivi e le strategie didattiche in base alle caratteristiche del singolo studente.
- Collaborazione interistituzionale: scuola, famiglia, enti locali e servizi socio-sanitari erano chiamati a lavorare insieme per costruire percorsi condivisi.
- Servizi e ausili specifici, come trasporto, assistenza e tecnologie compensative, per garantire l’accessibilità agli ambienti scolastici e alle attività didattiche.
- Creazione di gruppi di lavoro a livello di istituto e territoriale (GLHI e GLH), con il compito di monitorare e promuovere l’inclusione.
Con questa legge, l’integrazione non era più soltanto un obiettivo, ma diventava un diritto garantito per legge, sostenuto da strumenti operativi e da un’organizzazione istituzionale articolata.
Un elemento di rilievo introdotto dalla legge 104 fu la ridefinizione del concetto di handicap, inteso non solo come minorazione fisica, psichica o sensoriale, ma anche come condizione che si riflette sulla socializzazione, sull’apprendimento e sull’inserimento lavorativo. Questo ampliamento di prospettiva apriva la strada a un approccio più vicino al futuro modello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2001 avrebbe definito l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health).
L’idea centrale era che le difficoltà non dipendessero unicamente dalla persona, ma dal contesto sociale e ambientale. Barriere architettoniche, pregiudizi culturali e mancanza di strumenti adeguati potevano aggravare una condizione, mentre un ambiente favorevole era in grado di ridurre gli ostacoli e valorizzare le potenzialità.
Il valore pedagogico dell’inclusione
La legge 104/1992 contribuì a consolidare un nuovo paradigma educativo: l’inclusione non era più un’eccezione o un atto di benevolenza, ma parte integrante della missione della scuola. Questo implicava un cambiamento profondo nella didattica, che non poteva più limitarsi a standard uniformi, ma doveva adattarsi ai bisogni e alle capacità di ciascun alunno.
La personalizzazione dei percorsi, il ricorso a metodologie attive, l’uso di tecnologie assistive e il coinvolgimento della classe come comunità di apprendimento divennero elementi essenziali per garantire un’istruzione di qualità a tutti. L’inclusione, quindi, non riguardava solo gli alunni con disabilità certificata, ma produceva benefici per l’intero gruppo, promuovendo empatia, collaborazione e competenze trasversali.
Dai bisogni educativi speciali (BES) ai disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)
Negli anni successivi, il concetto di inclusione si è ulteriormente ampliato, andando oltre la disabilità. Con la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012, il Ministero dell’Istruzione ha riconosciuto formalmente la categoria dei Bisogni Educativi Speciali (BES), comprendente non solo gli alunni con disabilità certificata, ma anche quelli con difficoltà temporanee o permanenti di altra natura (sociali, linguistiche, culturali).
Un altro passo significativo è stata la legge 170 del 2010, che ha riconosciuto i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), come dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia, prevedendo strumenti compensativi e misure dispensative. Questo allargamento ha segnato il passaggio definitivo da un modello centrato sull’handicap a un paradigma educativo realmente inclusivo, in grado di rispondere a una pluralità di bisogni.
Dall’inclusione normativa all’inclusione quotidiana: prospettive e sfide attuali
Un bilancio storico
Il cammino che ha condotto la scuola italiana dall’esclusione alla piena inclusione è stato lungo e complesso. In pochi decenni, si è passati dall’idea di ineducabilità e segregazione in classi speciali a un sistema che riconosce il diritto universale all’istruzione. Le principali tappe legislative – la legge 118/1971, il documento Falcucci del 1975, la legge 517/1977 e la legge 104/1992 – hanno segnato passaggi decisivi, demolendo progressivamente il paradigma della separazione.
Queste riforme non hanno solo cambiato la scuola, ma hanno inciso in profondità sulla società, contribuendo a modificare il linguaggio, gli atteggiamenti culturali e le politiche pubbliche. La figura dell’insegnante di sostegno, il Piano Educativo Individualizzato (PEI) e l’attenzione al contesto sociale come fattore determinante della disabilità hanno reso il modello italiano un unicum in Europa, spesso citato come esempio avanzato di politica inclusiva.
L’ampliamento del concetto di inclusione
Negli ultimi decenni, la nozione di inclusione si è estesa oltre la disabilità certificata. La scuola italiana, sulla scia delle direttive ministeriali e delle linee guida internazionali, ha progressivamente incluso nel proprio orizzonte anche gli studenti con Bisogni Educativi Speciali (BES) e con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Questa evoluzione ha consolidato l’idea che l’inclusione non sia un intervento eccezionale, ma il cuore stesso della missione educativa: riconoscere la pluralità delle differenze come valore.
L’adozione del modello bio-psico-sociale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICF, 2001) ha rafforzato questa visione, ponendo l’accento sul ruolo del contesto e sulle barriere ambientali e culturali, più che sulla menomazione individuale.
Gli sviluppi normativi recenti
Un passaggio importante si è avuto con il Decreto Interministeriale n. 182 del 29 dicembre 2020, che ha ridefinito il modello nazionale di PEI. Il nuovo impianto si fonda sui principi dell’ICF, introducendo una prospettiva più dinamica e globale della persona. Il Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione (GLO) è diventato il centro decisionale in cui docenti, famiglie, specialisti e rappresentanti del territorio collaborano per delineare percorsi personalizzati.
Questo approccio rafforza il ruolo della comunità educante e rende l’inclusione un processo corale, non delegato al singolo insegnante di sostegno, ma condiviso da tutti gli attori coinvolti.
L’impatto della pandemia da COVID-19
La crisi sanitaria del 2020-2021 ha rappresentato una prova cruciale per la scuola inclusiva. La didattica a distanza ha messo in evidenza limiti e criticità, soprattutto per gli alunni con disabilità o con bisogni educativi complessi. L’accessibilità degli strumenti digitali, l’uso di tecnologie assistive e il sostegno da remoto hanno mostrato forti disparità tra territori e istituti.
Allo stesso tempo, la pandemia ha accelerato processi di innovazione, aprendo nuove riflessioni sull’importanza della didattica digitale integrata e sulla necessità di garantire ambienti di apprendimento flessibili e inclusivi anche oltre l’emergenza.
Le sfide attuali e future
Oggi l’inclusione scolastica non può più essere considerata un traguardo raggiunto, ma un processo in continua evoluzione. Tra le principali sfide emergono:
- Formazione continua dei docenti, sia curricolari sia di sostegno, sulle metodologie inclusive e sull’Universal Design for Learning (UDL).
- Risorse e strumenti adeguati, per evitare che la mancanza di personale o di ausili vanifichi i diritti sanciti dalle leggi.
- Integrazione interculturale, con classi sempre più eterogenee per provenienza linguistica e culturale.
- Benessere scolastico, inteso non solo come apprendimento, ma come costruzione di un ambiente accogliente, empatico e sicuro per tutti.
- Valorizzazione delle tecnologie educative, non come sostituti, ma come strumenti integrativi per abbattere barriere e ampliare le opportunità.
Conclusione: l’inclusione come scelta etica e pedagogica
La storia dell’inclusione scolastica in Italia dimostra che i cambiamenti più duraturi non si misurano solo nelle norme, ma nelle pratiche quotidiane. Una scuola inclusiva non è semplicemente una scuola che accoglie, ma una scuola che si trasforma costantemente per adattarsi alle esigenze di ciascun alunno.
L’inclusione, dunque, non è un “atto di benevolenza”, ma una scelta etica e pedagogica che pone al centro la dignità della persona. In questo senso, rappresenta uno dei pilastri di una società democratica, equa e solidale. La sfida per il futuro è continuare a tradurre i principi normativi in esperienze concrete, affinché ogni studente, con le proprie unicità, possa sentirsi parte attiva della comunità scolastica e sociale.
Box riassuntivo
Punti chiave
- Dall’ineducabilità all’inclusione: un percorso in quattro fasi storiche.
- Italia pioniera in Europa grazie alle leggi 118/1971, 517/1977 e 104/1992.
- Introduzione dell’insegnante di sostegno come figura chiave.
- Inclusione estesa anche a BES e DSA.
Errori comuni da evitare
- Ridurre l’inclusione a semplice inserimento fisico.
- Delegare l’inclusione al solo docente di sostegno.
- Considerare le normative come traguardo definitivo, anziché come base per un processo continuo.
Checklist operativa per scuole inclusive
- Ambiente accessibile (spazi, strumenti, tecnologie).
- PEI redatto in modo partecipato dal GLO.
- Collaborazione attiva con famiglie e servizi.
- Formazione permanente dei docenti.
Suggerimenti pratici
- Promuovere metodologie cooperative e inclusive.
- Integrare strumenti digitali e compensativi.
- Valorizzare la diversità come risorsa educativa.
Fonti e letture consigliate
- Costituzione della Repubblica Italiana (art. 3 e 34).
- Legge 118/1971; Legge 517/1977; Legge 104/1992; Legge 170/2010.
- Ministero dell’Istruzione e del Merito – Linee guida per l’inclusione scolastica.
- UNESCO, Education for All (1990) e documenti successivi.
- Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF – International Classification of Functioning, Disability and Health (2001).
I testi pubblicati in questa sezione hanno esclusivamente finalità divulgative e di supporto allo studio. Si tratta di rielaborazioni originali dell’autore, basate su fonti pubbliche, scientifiche e accademiche, e non costituiscono in alcun modo materiale ufficiale universitario o di enti formativi. Non sono trascrizioni, copie o riadattamenti di lezioni, dispense, slide o altri contenuti protetti da copyright.
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